I cento anni di Tel Aviv

Israele

La città più vivace e giovane di Israele. Una riflessione

Qualsiasi discorso si voglia fare su Tel Aviv non può non tener conto di dove si trova, del confronto costante che ha avuto con Gerusalemme, della necessità di darsi una fisionomia opposta, per avere una sua personalità. All’inizio era il nulla. La prima foto di Tel Aviv è quella di una lunga fila di uomini e donne che guardano il mare e che lì decidono di costruire qualcosa. Come la città dell’Utopia, Tel Aviv non ha una storia, ha solo un futuro, può solo progredire, inventarsi. Alla rovescia di Gerusalemme, sembrerebbe dire il senso comune e la convinzione di molti.

Ma poi è davvero così? Tel Aviv per quanto la sua immagine di città all’avanguardia sia quella di costruirsi e ricostruirsi, non ha mai abbattuto davvero i segni del suo tempo di vita, anzi a quei palazzi, a quelle case in cui si incrociano l’architettura povera o essenziale dell’edilizia degli anni ’30 e agli angoli di Bauhaus, ai luoghi aggregativi della sua storia intensa come l’Habima, ha costantemente dedicato cure e attenzioni perché non si perdessero, convinta che solo badando alla propria storia avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere. Non si è negata l’innovazione, ma voleva e doveva trovare un radicamento nel tempo. Un tempo in cui gli oggetti parlano della propria capacità di fare la storia, o meglio di esserci dentro la storia e di essere nel tempo presente per poter pensare di esserci ancora domani.

Una città che vive solo il day-by-day, il giorno per giorno, non scrive e riscrive continuamente la sua planimetria, non inventa spazi per il tempo libero (come il magnifico restauro della zona dei docks, ndr), semplicemente si lascia crescere, alla rinfusa, senza un gusto estetico. Chi vada lungo la passeggiata sul lungomare che si estende verso Nord, capisce che il problema è esattamente l’opposto: la necessità di darsi un volto. La città post-.industriale che è oggi Tel Aviv è anche la possibilità che molti tempi personali, mentali, culturali convivano e si ritrovino nello spazio urbano.
A cento anni dalla sua nascita, Tel Aviv è intesa come l’anti-Gerusalemme, il luogo della perdizione, dell’abolizione delle regole, della inesistenza del tempo e della rimozione della distinzione tra giorno e notte. Una città anch’essa complicata dalle molte facce sospesa tra la dimensione mediorientale dei suoi lati di trascuratezza nelle vie intorno a Suck ha-Carmel, in bilico tra la planimetria molto geometrica con i viali che corrono perpendicolari al mare e tutti i punti di aggregazione dalle parti di Shenkin, la via dove si trovano caffè, cinema, teatri e dove convivono, a pochi metri di distanza ebrei ortodossi, arabi, giovani dallo stile di vita molto liberal. Una città non è mai solo la sua rappresentazione. Più realmente, e in modo contraddittorio, una città è anche le vicende di vita che la percorrono.

Ciò non vale solo per Tel Aviv, ma anche per Gerusalemme. Qualcuno con cui correre, il romanzo di David Grossman è un’opera letteraria che ha al centro gli adolescenti, i loro drammi, le loro storie, sostanzialmente la loro solitudine. Ma c’è un altro protagonista: Gerusalemme. Ci sono alcuni quartieri, c’è la vita, la droga, la disperazione, dentro una città che improvvisamente perde la propria fisionomia o comunque esce dagli stereotipi con cui la si vuol incorniciare – sospesa tra la città religioso-ortodossa e i luoghi di riconoscimento delle diverse pratiche di culto -. La Gerusalemme di Qualcuno con cui correre è una città che chiunque sia stato a Gerusalemme conosce davvero: si gioca tra il centro intorno al Mashbir e il quartiere russo a ridosso di quel groviglio di strade che sta dietro Rehov Yaffo.
Questo per dirvi soltanto che una città non è solo il suo slogan. È soprattutto la sua gente, la sua umanità, gli uomini e le donne che la abitano, le loro storie, i loro luoghi di incontro; è la dimensione del “sommerso”, ciò che non si vede o che si intravede, quello che conta.

C’è una differenza che marca la distinzione tra Gerusalemme e Tel Aviv e che pesa nel loro paragone a distanza. E’ la dimensione del tempo e, di ciò che si considera l’identità di un luogo, dei materiali con cui si costruiscono le sue case, del disegno che hanno le facciate, dei colori.
Ma tutte e due hanno bisogno di avere un piede in questo tempo e un piede nel passato. Di sapere che si è oggi perché ieri qualcuno ha provato a entrare nella storia e in forme contorte, conflittuali, lacerate ci è rimasto. E come può provare a immaginarsi un futuro. Esattamente in questo sguardo oltre il nostro tempo sta il senso del centenario di Tel Aviv.