Dialogo e conoscenza le basi del rapporto fra cristiani e Israele

Israele

di Davide Foa

“Un cristiano non può essere antisemita”. Queste le parole pronunciate da Papa Francesco durante il 70°anniversario della deportazione degli ebrei di Roma, parole riprese giovedì sera da Zion Evrony, ambasciatore israeliano presso la Santa sede, in occasione dell’evento Kesher “I rapporti tra Chiesa, ebrei e lo Stato d’Israele”.

Anna Foa, storica ed esperta nei rapporti tra Chiesa ed Ebrei, affianca l’ambasciatore. Il tutto viene moderato da Rav Roberto Della Rocca, che riesce a ben interpretare un ruolo non facile in una serata condita da polemiche finali.

Ma andiamo con ordine.

Dopo una breve introduzione, la parola viene data all’ambasciatore (in basso nella foto) che, con un accurato intervento, ripercorre le tappe fondamentali del rapporto tra  Chiesa e Israele.
Tutto iniziò nel 1904, quando Papa Pio X negò ogni tipo di sostegno alla causa ebraica dopo essere stato interpellato dal padre del sionismo, Theodor Herzl.

Pio X non aveva la minima intenzione di supportare un popolo che si era rifiutato di riconoscere Gesù Cristo come il figlio di Dio. Il sottofondo di questo rifiuto sta, secondo Anna Foa, nella convinzione che l’esilio degli ebrei dovesse essere la giusta punizione divina.

Si dovette aspettare ben sessantuno anni, il 1965, per vedere un cambiamento e questo prese il nome di “Nostra Aetate”, documento fondamentale che segnò una rivoluzione teologica interna alla Chiesa.

La Chiesa cattolica si pose finalmente il problema del suo rapporto con le religioni non cristiane, specialmente con l’ebraismo. Gli ebrei, stando al documento “Nostra Aetate”, non devono più essere presentati in luce negativa e non si deve credere che questi siano maledetti, anzi “in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio”. Inoltre, non devono più essere accusati della morte di Gesù Cristo, o almeno non tutti, solo chi lo fu realmente. Come ultima cosa, il documento condanna ogni forma di antisemitismo.

L’ambasciatore prosegue quindi con il suo intervento e giunge al 1993, anno della firmadell’Accordo Fondamentale e quindi del riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Chiesa. Iniziarono così le relazioni diplomatiche tra Israele e la Santa Sede.

Tra qualche giorno Papa Bergoglio si recherà in Israele accompagnato dallo stesso Evrony.

Eppure non sono mancati negli ultimi tempi degli attacchi anti-cristiani da parte di estremisti israeliani, contrari a stipulare accordi economico-finanziari con la Chiesa di Roma.

L’ambasciatore non evita l’argomento, anzi riconosce come in Israele ci sia una scarsa attenzione per l’educazione al cristianesimo, che deve essere assolutamente favorita e migliorata.

Evrony chiude quindi il suo intervento con una preghiera tratta dai Salmi: “ Pregate per la pace di Gerusalemme”.

La parola passa ad Anna Foa, storica dell’età moderna, che, riprendendo l’intervento di Evrony, sottolinea la lentezza del processo diplomatico in questione. Lentezza che non esclude però la continuità.

Anna Foa (nella foto in basso) procede per gradi. Fin dal rifiuto di Pio X, la Chiesa non riconobbe Israele per motivi religiosi più che politici. Il cattolicesimo si mostrò infatti in difficoltà nel dover riconoscere un pensiero, quello sionista, che concedeva al popolo ebraico i diritti su una terra tanto importante.

Dal 1965 al 1993, ovvero dall’enciclica “Nostra Aetate” all’Accordo Fondamentale, i vari portavoce ecclesiastici affermarono di non riconoscere Israele per motivi politici.

In realtà, sottolinea Anna Foa, dal preambolo del patto del 1993 si notano più che altro delle motivazioni religiose, in quanto si parla più del rapporto tra ebrei e Chiesa che non di Israele.

In definitiva, il motivo religioso ha certamente preceduto quello politico.

Questa difficoltà della Chiesa nel riconoscere Israele come stato ebraico, venne in un certo senso superata da un cattolico francese, Lemaire, che propose una visione nuova, capace di risolvere la questione. Egli sosteneva che la presenza degli ebrei in Israele fosse un evidente segno di sacralità, una profezia narrata nei testi sacri che finalmente diventava realtà.

La sacralità cattolica doveva quindi fondarsi su quella ebraica.

Sicuramente il rapporto con l’ebraismo è una questione fondante per la Chiesa e nonostante sia evidente la lentezza di tale processo, non bisogna trascurare i cambiamenti, anche se piccoli.

Uno di questi non può che essere la visita di Papa Francesco in Israele.

A fine serata quindi, i due ospiti si sono detti concordi nell’auspicare e sostenere un avvicinamento della Chiesa alla causa ebraica, ma parte del pubblico presente alla serata di Kesher non si è detto affatto d’accordo. C’è infatti chi sostiene che la Chiesa si sia avvicinata agli ebrei solo perché costretta dai tempi; chi ancora vede la volontà di clero e gerarchie ecclesiastiche di distaccarsi dalle radici, pur sempre ebraiche, della religione cristiana. Il dibattito è quindi decollato su toni accesi per diventare decisamente rovente verso il termine. Rav Roberto Della Rocca, che ha ben condotto la serata, ha ricondotto i toni alla normalità, consentendo all’ambasciatore di evidenziare i dati di un ultimo sondaggio, secondo il quale l’antisemitismo è presente in un quarto delle persone che abitano il globo. Sulla base di evidenze come queste, risulta quindi ovvia l’importanza di favorire e rilanciare un dialogo epocale, unico modo per sradicare la mala erba dell’antisemitismo, specie nella sua accezione anti-giudaica.

“Un cristiano non può essere antisemita”: ecco un altro tassello per un grande mosaico diplomatico.