Sergio Della Pergola

Della Pergola: «Una data che ha cambiato il corso della storia. Hamas deve essere distrutto»

Israele

di Fiona Diwan

Un’analisi del conflitto in corso tra Israele e Hamas. Il 7 ottobre è un punto di non ritorno. «Chiediamo al mondo di scegliere da che parte stare,
senza ipocrisie». Intervista a Sergio Della Pergola

«Occorre un nuovo paradigma. Dopo la strage di sabato 7 ottobre, urge un cambiamento radicale di narrativa; è finita un’epoca. Servono nuove chiavi interpretative: perché è finita la Storia com’era, è finita la politica mediorientale come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. È stato oltrepassato un limite, quello che è successo il 7 ottobre è senza precedenti, Israele è sotto minaccia di annientamento totale ed è tempo di elaborare una nuova visione e diverse soluzioni». A parlare così è Sergio Della Pergola, nato a Trieste nel 1942, cittadino israeliano dal 1966, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme e docente in numerosi atenei internazionali, demografo e studioso di storia ebraica contemporanea, consulente del governo israeliano, di Yad Vashem e dell’Istituto Centrale di Statistica di Israele, considerato il massimo esperto di popolazione ebraica mondiale, sia in Israele sia in Diaspora.

I media hanno scritto che i terroristi di Hamas, il 7 ottobre, agirono sotto l’effetto del Captagon, la droga della guerra, l’anfetamina della Jihad. Un’inaccettabile giustificazione…
Questa tesi era già circolata ed è plausibile; ma resta grottesco spiegare le atrocità commesse con questo fatto. Parliamoci chiaro: erano due anni che l’attacco veniva pianificato, una strage che riflette l’ideologia genocidaria di Hamas, decapitare bambini, pugnalare nel ventre donne incinte, bruciare una nonna con la nipote affetta da autismo e poi passare a un altro bambino che si era rifugiato nel solaio, uccidere intere famiglie a sventagliate di mitra: beh tutto questo riflette una ideologia stragista che sta a monte e che legittima tutto ciò. È l’esito di un preciso programma, non è la deviazione momentanea di un soldatino che ha male interpretato le istruzioni. Tra l’altro, diversi cadaveri di terroristi portavano sotto la camicia una bandiera dell’Isis. Ormai, questi distinguo così cari ai media occidentali, tra palestinesi di un tipo e palestinesi di un altro tipo, tra terroristi dell’Isis, di Hamas o altro, non hanno nessun senso, mi fanno ridere. Qui si tratta di un piano d’azione unico e condiviso, ovvero la distruzione di Israele e degli ebrei. Ed è tutto scritto nell’articolo 7 della carta fondante di Hamas.

Manifestazioni pro-pal ovunque: come relazionarsi oggi con l’opinione pubblica sovente filoaraba?
Guardi, in questi giorni ho rilasciato molte interviste: la tendenza più diffusa è quella di farmi domande di taglio geopolitico, “ma ci sono i diritti dei palestinesi, ci sono due torti e due ragioni, bisognerebbe arrivare a una risposta ragionevole, non crede professore?…”. Ebbene no, oggi io dico che la risposta “ragionevole” è la stessa che è stata data al regime nazista 78 anni fa. L’ultima scena dell’ultimo atto dovrà essere il suicidio del leader nel bunker e se non avverrà allora qualcun’altro dovrà provvedere. È tempo di una conclusione, come è stato con la Germania e con il Giappone nel 1945. Non nascondiamolo, questo conflitto rischia di allargarsi, di diventare più esteso, è già successo in passato. Il secondo conflitto mondiale terminò con la totale distruzione del nemico, un nemico aggressore che fu vinto solo perché fu completamente distrutto, pagando un prezzo altissimo. Lo stesso ahimè potrebbe accadere adesso.

I media accusano Israele di rispondere sempre in modo asimmetrico e non proporzionale…
La proporzionalità è un concetto falso e untuoso. Non esiste la proporzionalità in guerra: gli inglesi bombardarono Dresda e fecero 35 mila morti in un giorno solo, con le bombe incendiarie, a guerra quasi finita; gli Stati Uniti dovettero sganciare l’atomica per far finire il conflitto… Non c’era nulla di proporzionale in tutto questo. A volte i conflitti si concludono con un armistizio, altre volte in maniera più perentoria; stavolta, volenti o nolenti, questa è la situazione in cui si trova Israele. Ricordiamoci che dal 2005, data dello sgombero di Gaza, Israele ha subito da Gaza numerosi attacchi. Ultimamente c’eravamo illusi ci fosse un armistizio più duraturo e invece non è stato così: malgrado il governo israeliano avesse da anni permesso l’arrivo a Gaza di regolari rifornimenti, un flusso di 30 milioni di dollari al mese dati dal Qatar, malgrado avesse distribuito 20 mila permessi di lavoro agli arabi di Gaza innalzando il reddito dell’intera Striscia, tutto questo non è servito a niente. È stato inutile, accadeva mentre Hamas pianificava questo orrore. Abbiamo imparato la lezione. Non si può più tornare alla vecchia formula, bisogna cambiare il dischetto, ci vuole un nuovo paradigma, appunto. Non dobbiamo chiedere ma pretendere che anche gli altri si schierino in maniera inequivocabile. Basta con prese di posizione che io chiamerei parve, né carne né pesce: la Chiesa cattolica, il Papa, il neo-cardinale Pizzaballa con cui ogni tanto mi intrattengo, i partiti politici… Basta con i generici e ipocriti appelli alla non violenza, al “volemose bene”… Tutte dichiarazioni parve che dimostrano un certo lassismo morale, una carenza nel capire il nocciolo vero del problema. Dobbiamo chiedere a tutti di prendere posizione. E allora torniamo a Primo Levi, ai sommersi, ai salvati, agli spettatori, alla zona grigia. Siamo in una situazione di post Shoah. Notoriamente io detesto l’uso della parola Shoah fuori dal contesto specifico della Shoah, ma stavolta il concetto è tornato a essere rilevante. Questo è il momento della verità, non ci sono più possibili sfumature, ambiguità, posizioni intermedie: oggi, chi non sta con me è contro di me.

Il rischio è un coinvolgimento diretto del regime degli ayatollah.
Davanti a 1400 morti civili e più di 200 ostaggi, tutto si estremizza. Di fatto l’Iran ha dichiarato guerra a Israele e da giorni sulla moschea centrale sventolano le bandiere nere d’invito alla guerra santa e al Jihad totale: c’è davvero da temere una estensione del conflitto, senza contare le due portaerei americane al largo di Haifa in funzione anti-Iran. E poi la processione dei politici, Macron, Biden, il premier inglese e quello tedesco. Tutti siamo consapevoli del rischio di un allargamento della guerra.

Come potrebbe evolvere la posizione dei vari paesi arabi?
I vari premier arabi hanno annullato la visita di Joe Biden dopo lo scoppio della bomba sull’ospedale di Gaza: una voragine di disonestà questa, sia araba sia mediatica, con la BBC che continuava per giorni a ripetere “non sappiamo chi è stato, di chi è la responsabilità, arabi e israeliani si accusano a vicenda…”. Invece la responsabilità era chiarissima, c’erano già le prove dell’origine jihadista del razzo, con la stessa Al Jazeera che diffondeva il filmato e la registrazione telefonica tra due miliziani che ammettevano la colpa. Di fatto c’è, per ora, un rifiuto al dialogo da parte araba, un rifiuto a considerare la realtà per quella che è. Inoltre, il dialogo con l’Arabia Saudita è ormai interrotto e forse morto e sepolto, una sconfitta per gli Usa poiché Biden era molto interessato a portare a casa l’accordo con Bin Salman. Volendo parlare chiaro, a mio avviso, questo è stato uno dei tanti errori di Netanyahu: condurre paci separate con i vari paesi arabi, in modo da dimostrare quanto ormai il problema palestinese fosse marginalizzato e risibile, un errore fatale. Se poi Bin Salman avrà interesse a riprendere il dialogo, cosa non da escludere, vedremo.

Quale scenario prospetta?
Ci dovrà essere un dopo Hamas. Come lo immagino? Con una separazione netta tra Gaza e la Cisgiordania poiché sono situazioni politiche completamente differenti. Penso che bisognerebbe decretare, una volta per tutte, la morte dell’idea dello Stato palestinese come Stato unitario; personalmente, separerei le due entità, darei precedenza alla sovranità di Gaza come Stato indipendente, magari con la gestione temporanea di un emirato, senza rinunciare anche a una sua versione religiosa islamica purché sia gestita da una forza che si dimostri moderata e capace, – come gli emirati ad esempio, artefici di un successo economico e logistico di tutto rispetto -, insomma una leadership disposta a convivere con Israele, ivi compresa anche l’Arabia Saudita, che potrebbe esercitare una sorta di mandato su Gaza con la partecipazione esterna delle potenze occidentali. Verrà poi il momento di ricostruirne l’economia come fu fatto in Germania, paese raso al suolo dopo la guerra. Dopotutto, oggi, a ottant’anni dalla guerra, la Germania convive in pace con tutti e anche con la Francia. Dovrà quindi nascere una nuova Gaza che stipuli con Israele una forma di contratto, senza negare tuttavia il diritto dei palestinesi ad avere una loro forma di espressione. Per quanto riguarda la West Bank, la realtà è molto diversa: tutti aspettano la morte di Abu Mazen per cause naturali, è ormai vecchio e malato. Dopo la sua morte ci sarà il bagno di sangue, non c’è un delfino, si scatenerà la lotta alla successione, il caos totale, e Israele avrà allora un grosso dilemma: se fare il vigile poliziotto oppure se fare un passo indietro e lasciare che facciano loro, e vinca il migliore.
Intanto, oggi, a Gaza la priorità è quella di distruggere le centrali di potere mescolate alle abitazioni civili, e va incoraggiata la popolazione civile a sgombrare certe zone per consentire che l’azione di terra degli israeliani risparmi vite umane. Ovvio che Hamas cerchi di impedire l’evacuazione dei civili e che metta posti di blocco: con più morti civili è più facile guadagnarsi il favore dell’opinione pubblica occidentale.

La visita di Joe Biden in Israele: nessuno si aspettava una tale vicinanza; e tuttavia il Presidente Usa ha invitato Israele a tenere il freno a mano tirato, a usare grande cautela…
Joe Biden è stato sorprendente, ha parlato col cuore. Mai la politica americana è stata così indiscutibilmente chiara. Il suggerimento di Biden è in primis quello di tenere il fronte nord caldo ma non rovente, insomma un invito a non allargare il teatro: non creiamo un conflitto regionale dice Biden, cerchiamo di lasciare il Libano e Hezbollah ai margini, per quanto possibile. Ecco, Biden sta suggerendo di fare una cosa alla volta, prima i conti con Hamas e poi pensare a altro. Inoltre, sta dicendo di guardarsi bene dal rioccupare Gaza come prima del 2005. Dice: attenzione a non tornare alla politica degli insediamenti a Gaza, non fate l’errore che hanno commesso gli Stati Uniti dopo l’attacco delle Torri Gemelle, non impegolatevi in una guerra infinita con gravi perdite umane che poi non producono un risultato politico…, dice Biden.

Oggi Benjamin Netanyahu è davvero un’anatra zoppa? È politicamente finito secondo lei?
Sì, è un’anatra zoppa e ha un gabinetto di emergenza che lo costringe ad ascoltare altre voci autorevoli, ha dovuto cambiare tono e smetterla di parlare di traditori e di odio verso chi non la pensa come lui. Molti tra i suoi ministri ancora non hanno capito bene, pensano di poterne venire fuori come se nulla fosse, di restare in sella anche in futuro… In Israele c’è una tradizione antica di commissioni d’inchiesta e molti si difenderanno dicendo “io non sapevo, io non ero al corrente…”, come fece lo stesso Bibi con la tragedia del Monte Meron quando affermò «ma come posso prendermi la responsabilità di una cosa di cui non ero al corrente?».
Ma tutta questa situazione è anche l’esito di un concetto strategico sbagliato (ovvero le paci separate con emirati e paesi arabi), di cui Netanyahu è il principale responsabile e protagonista. Verrà il giorno della resa dei conti con le commissioni d’inchiesta. Oggi le persone che hanno i figli al fronte si chiedono perché il figlio di Netanyahu se ne stia in Florida. Migliaia d’israeliani ritornano per arruolarsi, dov’è il figlio di Bibi? All’indomani della guerra del Kippur tutto il governo si dimise in blocco ma oggi non vediamo nulla di paragonabile alla statura morale di quella generazione: Golda Meir era una persona di integrità, fece errori e scelte strategiche sbagliate, sia lei sia Moshè Dayan, ma entrambi ebbero il coraggio e l’integrità di ritirarsi. Qui non vediamo nulla di simile. Anzi, si attribuisce la colpa ai governi precedenti, i governi di Ariel Sharon che decise di uscire da Gaza, di Ehud Olmert, di Bennett, di Lapid… Secondo i sondaggi recenti sembra che oggi il governo sia letteralmente travolto dal biasimo, il grande vincitore è Benny Gantz che si è dimostrata la figura politica più equilibrata, meno estrema, più disposta a fare sacrifici, meglio di Yair Lapid.

Cosa suggerisce alle Comunità ebraiche in Diaspora?
Innanzitutto vanno prese grandi precauzioni per proteggere le comunità, tutelarle e investire al massimo in sicurezza. Ci sono precedenti drammatici e vanno tenuti alti i livelli di attenzione. Secondariamente, personalmente guardo con ripugnanza ai delatori, ai traditori e ai nemici, alcuni dei quali hanno anche cognomi ebraici. Mi dispiace, ma va detto chiaro e forte che non è tollerabile nessuna ambiguità o reticenza su quanto è accaduto il 7 ottobre.

Che cosa pensa degli ebrei che manifestano a Washington contro Israele e contro la guerra?
Si tratta del movimento Not in our name, un gruppo molto a sinistra, che conta numerosi intellettuali: le loro posizioni lasciano sbigottiti, sono la cuspide di un iceberg. E sono un sintomo del distacco di molti ebrei americani da Israele, un fenomeno su cui ci sono molte evidenze e dati sociologici. Lo vediamo nell’accademia e nelle università, luoghi in cui io conduco battaglie minoritarie, anche con colleghi ebrei. È un altro duro colpo al mito dell’unità del popolo ebraico, alla solidarietà ebraica, cosa non vera, non facciamoci illusioni. In proposito, viene in mente la guerra del Libano nel 1982, quando molti intellettuali italiani – anche ebrei – si dissociarono pubblicamente da Israele, una lunga lista che includeva nomi molto in vista, nomi peraltro oggi curiosamente a favore di Israele, diventati attivisti di un pro-israelismo sfegatato e acritico. Ma noi ebrei non siamo forse sempre stati un po’ strani, un po’ folli, litigiosissimi e ipercritici?