di Sofia Tranchina
Giovedì 12 giugno, presso il Circolo Caldara di Milano, si è tenuto un incontro promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) e organizzato con la Comunità ebraica di Milano, dedicato al dialogo tra arabi ed ebrei. Protagonista della serata è stato Loay Alshareef, blogger saudita noto per il suo impegno contro l’antisemitismo nei media arabi e per il sostegno agli Accordi di Abramo. Con lui sul palco Klaus Davi, giornalista e saggista da anni attivo nel dibattito culturale italiano, e Davide Blei, editore e delegato alla comunicazione della Comunità ebraica di Milano.
È stata una serata densa, animata da una voce inusuale nel panorama arabo: quella di un musulmano – un tempo lui stesso partecipe dell’odio verso Israele e gli ebrei – che ha scelto di battersi pubblicamente per la pace con lo Stato ebraico. Una scelta controcorrente rispetto a un ambiente educativo e mediatico, come ha raccontato lui stesso, profondamente permeato di ostilità. “Quando ero adolescente odiavo Israele. Poi, in Francia, ho incontrato per la prima volta una famiglia ebrea. È stato l’inizio del cambiamento”, ha ricordato Alshareef, sottolineando quanto l’incontro diretto – e non l’ideologia – sia stato decisivo.
Alshareef, attingendo alla propria esperienza personale, ha indicato tre cause principali dell’antisemitismo nel mondo arabo. La prima è l’istruzione scolastica, che fin dall’infanzia propone letture religiose ostili: “A scuola mi insegnavano che gli ebrei e i cristiani sono nostri nemici e non potranno mai essere nostri amici”, ha detto, citando i programmi dell’UNRWA. In contesti dove la memorizzazione del Corano si accompagna a interpretazioni antiebraiche, l’ebraismo non è presentato come una religione diversa, ma come una minaccia.
La seconda è la propaganda culturale, veicolata da serie televisive e film apparentemente innocui. “Una delle mie preferite – ha raccontato – era Una notte senza un cavallo, una produzione egiziana secondo cui l’invasione britannica dell’Egitto fu il risultato di un complotto ebraico, ispirato ai Protocolli degli Anziani di Sion.” Nell’episodio finale, un gruppo di ebrei celebra intorno a un tavolo la conquista del paese. “È ancora su YouTube”, ha notato, con amarezza.
La terza è l’antisemitismo europeo importato nei paesi arabi, in particolare attraverso il cristianesimo radicale. “È la stessa mentalità che accusa gli ebrei di aver ucciso Gesù, dimenticando che Gesù stesso era ebreo. La replacement theology – l’idea che i cristiani abbiano sostituito Israele come popolo eletto – ha attecchito anche nei nostri paesi, alimentando l’idea che l’ebraismo sia da respingere, anziché da riconoscere come radice comune.”

Nel corso del dialogo, Alshareef ha messo in discussione con forza anche alcuni slogan dell’attivismo occidentale, come “dal fiume al mare”, ricordandone le origini nei gruppi terroristici post-1948. “Molti europei non sanno che questo slogan è stato usato da chi predicava la cancellazione di Israele. Nel 1982, a Roma, fu gridato durante l’attacco alla sinagoga che uccise un bambino.” È un richiamo che dovrebbe far riflettere soprattutto chi, in buona fede, adotta parole d’ordine senza conoscerne la storia. Le sue critiche più dure sono state riservate agli attivisti occidentali che invocano la pace, ma ignorano chi può realmente favorirla: “Nella storia, ogni partito che ha iniziato la guerra è quello che può finirla. E il partito che ha iniziato questa guerra è stato Hamas, che ha rapito innocenti israeliani dalle loro case e dal festival. E possono finirla se rilasciano gli ostaggi.”
Ma la pace esige onestà, e per rompere davvero il circolo vizioso del conflitto, occorre riconoscere le verità difficili da entrambe le parti: quelle che fanno vacillare le certezze ideologiche e aprono lo spazio per uno sguardo più umano, più esigente, più libero. Citando Nietzsche – “Chi combatte i mostri deve stare attento a non diventare mostro lui stesso” – Alshareef ha ammonito contro la tentazione di ridurre l’intera popolazione civile a un’estensione del regime che la domina.
Non è mancata, in questo senso, una distinzione fondamentale: quella tra popolazione palestinese e Hamas. Alshareef ha espresso cordoglio per ogni vittima palestinese, e ha ricordato che molti a Gaza si oppongono a Hamas, spesso pagando con la vita.
Nonostante la carenza di una riflessione critica su Israele – sull’occupazione, sugli insediamenti, sulle politiche del governo attuale – e una vicinanza non celata alla narrazione ufficiale israeliana, l’intervento di Alshareef è apparso lucido, colto e prezioso. In un panorama segnato da radicalismi reciproci, la sua voce rappresenta un punto di partenza concreto per chi vuole costruire ponti.
Il valore della serata è stato quello di offrire una contro-narrativa araba fondata sulla conoscenza, sull’onestà e sul dialogo, in netta discontinuità con la propaganda dominante. È emersa una visione di islam culturale e riformato, che valorizza la memoria condivisa e le radici comuni. “Un giorno voleremo da Jeddah a Tel Aviv, da Abu Dhabi al Cairo, senza muri, senza limiti”, ha immaginato Alshareef. Una speranza che poggia sulla conoscenza reciproca e sulla fine dell’odio identitario.
Se è vero, come ha detto Alshareef, che la cultura può sradicare l’odio, allora questo vale anche per i nodi irrisolti che continuano ad alimentare il conflitto: la terra, i diritti, la memoria. Nessun dialogo può prescinderne.