Channukkà giorno 3. La rivolta di Mattatià e dei suoi figli. L’azione essenziale dell’uomo

Ebraismo

di Rav Giuseppe Laras

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In occasione della festa di Channukkà, pubblichiamo otto pensieri scritti da Rav Giuseppe Laras sui significati della festa. Questo il terzo. QUI il primo. QUI il secondo.

 

Nella Mishnah (Avòth II, 5) è scritto che uvmaqòm sheén ish, ishtaddlél liyyòth ish, “e laddove non vi sia un uomo, procura tu di esser tale”.

Chi mai avrebbe potuto aiutare il proprio Popolo e se stesso, all’epoca di Antioco IV, Giasone e Menelao? Quali uomini e quali donne, in una situazione così compromessa e deteriorata, avrebbero scelto di spendere ogni loro energia, ogni residuale istante di libertà e di vita, rischiando il tutto per tutto, per salvare la cadente Casa di Israele? Quali caratteristiche avrebbero dovuto possedere questi pochi contro i molti, questi puri contro gli impuri, questi giusti contro i malvagi, questi osservanti della Tua Torah contro gli empi?

Le potenti élites ebraiche “ellenizzanti” erano chiaramente escluse da questo esiguo manipolo, al pari della gente comune, arrabbiata, senza guida e confusa. Vi erano poi i gruppi disorganizzati di pii ebrei che, pur scandalizzati e sgomenti dalla situazione, non si sarebbero mai rivoltati contro un governo straniero conquistatore, in quanto una tale situazione politica era interpretata da costoro come segno dello sdegno e della collera divini; gli ebrei, quindi, avrebbero dovuto devotamente accettare il decreto celeste emesso contro di loro. In siffatta ottica, eventuali devianze e empietà perpetrate dal governo occupante sarebbero state punibili, dunque, unicamente da Dio stesso. Tuttavia, il proseguire della profanazione del Santuario, come pure le uccisioni di innumerevoli persone devote e osservanti per il solo fatto di non aver abiurato l’ebraismo tradizionale, almeno parzialmente scossero alcune frange di questi pii, che, comunque, restavano senza una guida.

La misura divenne colma nella cittadina di Modiìn, nel 167 a.e.v., a seguito di ulteriori vessazioni, blasfemie e profanazioni. Insorse Mattatià, figlio del Sommo Sacerdote Yochanàn, assieme ai suoi cinque figli: Yochanàn, Shim‘òn, Yehudah, Eliezer e Yonathàn. Evocativi nomi ebraici che, sin dalle loro sillabe, contrastavano con gli epici nomi greci degli ebrei assimilati, di Giasone e di Menelao. Ecco il leader, Mattatià, il risoluto uomo di campagna, cohen in un borgo decentrato e non in Gerusalemme, che combinava lignaggio familiare, un’esposizione parziale alla cultura ellenistica e un’aspra e intransigente polemica verso le politiche religiose delle élites di Gerusalemme. Attorno a lui si coagularono forze eterogenee e iniziò così la rivolta. Alla morte di Mattatià, subentrò al comando degli insorti suo figlio Yehudah.

Gli ebrei, finalmente, dovettero scegliere con chi schierarsi di fronte al divampare di una guerra -al contempo esterna e intestina- in cui morivano loro fratelli e sorelle per la difesa della fede avita, della santità di Eretz Israel e della libertà dei propri figli. Molti assimilati decisero che la loro identità era anzitutto ebraica, e non ellenistica. E senza il ritorno di questi dispersi -e anche questo fu un grande miracolo!-, i Maccabei sarebbero probabilmente stati travolti e piegati. Assieme a loro si ritrovarono anche altre fazioni del Popolo, tra cui alcuni dei pii succitati.

Vi furono, infine, donne coraggiose ed eroiche, e così il Talmùd stabilì che le donne, al pari degli uomini, debbano ottemperare la mitzvah dell’accensione della lampada di Hanukkhah, poiché anche loro presero fondamentale parte attiva al miracolo.

Qual è la sensibilità religiosa, schiettamente ebraica e cardine della nostra Tradizione, a cui Mattatià e Yehudah si attennero e che li contraddistinse rispetto alla religiosità omologante instumentum regni ellenistica, come pure rispetto alla devozione utopista, attendista e passiva di certi gruppi di pii -anche martiri-, per cui si sarebbe dovuto attendere un intervento diretto di Dio?

È l’Alleanza il fondamento di questa sensibilità religiosa. Essa, infatti, prevede, accanto al provvidente e misterioso agire del Santo e Benedetto, l’azione essenziale e insostituibile dell’essere umano; l’Alleanza, che vincola Dio a Israele e Israele a Dio. Unicamente in questa prospettiva si può comprendere quanto sia importante che l’essere umano si auto-aiuti il più possibile, facendo fruttare ogni sua energia, disposizione e talento. L’iniziativa, cioè, spetta in primo luogo all’essere umano, mentre coronarla con benedizione e successo è la risposta di Dio. Come ebbe a scrivere Rav J.D. Soloveitchik: “Certamente se il Signore non edifica la casa, invano faticano i costruttori (Salmo CXXVII, 1), ma, se coloro che vi lavorano cessano di costruire, non ci sarà mai alcuna casa. Il Signore vuole che l’essere umano intraprenda l’opera che Egli, nella Sua infinita grazia, completerà”. Non esiste ebraismo senza questa fede, non esiste questa fede senza una dose di coraggio e tenacia.

Mentre guardiamo questa sera danzare e ardere le luci di Hanukkhah pensiamo alle migliaia di coloro che hanno coraggiosamente e tenacemente fatto agire il “poco” in situazioni disperate; pensiamo agli sforzi continui, silenti e dignitosi di generazioni e generazioni di ebrei che, pur tra mille difficoltà e affanni, non si sono permessi di voler rinunziare alla costruzione una famiglia ebraica, affidando -nell’unico modo possibile- l’ebraismo al futuro; pensiamo a chi ci ha preceduto e non ha abbandonato l’ebraismo e il nostro Popolo in secoli bui di ghetti, roghi, umiliazioni, conversioni forzate, disprezzo, povertà, dhimmitudine e diffamazione. Pensiamo, dinanzi a questi lumi, a chi ritrovò lo spirito dei Maccabei quando tutto sembrava compromesso. Pensiamo alla resistenza strenua all’assimilazione combattuta da Rav Shimshon Rafael Hirsch; allo spirito di ricostruzione e di investimento nel futuro che animò, in tempi più vicini a noi, l’opera di Rav Léon Ashkenazi (Manitou), di Rav J.D. Soloveitchik e del Rebbe di Lubavitch; alle intuizioni geniali di Theodor Herzl e, poi, ai sionisti religiosi; alla speranza densa di contenuti che animò i creatori dell’Alliance Israélite Universelle, come pure i padri fondatori dell’Università Ebraica di Gerusalemme -l’unico caso nella storia in cui la nascita dell’Università ha preceduto quella dello Stato-; agli eroi, infine, del Ghetto di Varsavia e ai gloriosi caduti dello Stato di Israele.

Ma penso anche, con commozione e ammirazione, dopo decenni di attività rabbinica, al coraggio e alla fede semplice di quei non pochi ebrei che, provenienti da Paesi Islamici, ove i loro bisnonni, nonni o genitori erano a forza stati convertiti all’Islàm, si sono rivolti al Tribunale Rabbinico da me presieduto per far ritorno completo all’ebraismo, mettendo spesso a rischio le loro stesse vite, i beni che magari mantenevano ancora in quei luoghi, i rapporti con i familiari che forse ancora ineluttabilmente vivono -nel terrore- in quei Paesi. Di fronte alla sete di ebraismo di queste persone, mi chiedo e vi chiedo: chi siamo noi, che viviamo comodi e rilassati, volendo avere la botte piena e moglie e figli ubriachi, facendoci sconti e discettando di cultura ebraica nei salotti buoni? Pensiamo anche a noi, questa sera, dinanzi alle luci della redenzione di Hanukkhah.