Fuori da Israele l’islam radicale

Israele

di Luciano Assin

Accusato di fomentare violenze e terrorismo, al grido di “El Aqsa è in pericolo”, il movimento islamico del Nord di Raed Salah è stato dichiarato illegale dal governo Netanyahu. Ma infuria il dibattito: provvedimento necessario o decisione insensata e anti-democratica? Se li dichiariamo fuorilegge, come faremo a controllarli, protesta lo Shin Bet? L’ultima parola spetta all’Alta Corte di Giustizia.

Raed Saleh, il leader della Northern Branch
Raed Saleh, il leader della Northern Branch

Dopo un lungo periodo di tentennante indecisione il governo Nethanyau ha deciso per il sì, dichiarando il movimento islamico israeliano fuorilegge. Le accuse principali sono quelle di connivenza e collaborazione con Hamas e con i Fratelli musulmani (per inciso anche dichiarato fuori legge dal presidente egiziano Morsi). Leader indiscusso del movimento è Raed Salah (vedi box), figura più che controversa all’interno del variegato e complesso panorama politico israeliano. Per essere più precisi, ad essere illegale è quella che in Israele è denominata The Northern Branch, la fazione settentrionale del movimento che, a differenza della sorella meridionale, è considerata molto più estremista. Le sue attività sono da ora vietate perchè, secondo il ministro della Sicurezza interna Ghilad Erdan, ha “fomentato violenze e atti di terrorismo’’. Gli arabi israeliani sono scesi in sciopero generale quqlche settimana fa per protestare contro la messa al bando del Movimento islamico. Lo hanno deciso a Nazareth i dirigenti della popolazione araba in Israele che progettano anche di rivolgersi alla comunità internazionale. E in precedenza, ripetute volte, un nutrito presidio di donne attiviste, brandendo il Corano, aveva minacciosamente inibito l’ingresso a tutti i non islamici alla Spianata delle moschee a Gerusalemme. Gli scopi dichiarati del movimento islamico sono, a prima vista, ammantati di legittimità e correttezza: attenzione all’insegnamento della religione islamica e rafforzamento delle istituzioni religiose, l’impegno a mantenere e ristrutturare i luoghi di culto, sviluppo della cultura islamica e incoraggiamento verso precetti religiosi quali la carità e il “hajj”, il tradizionale pellegrinaggio a La Mecca, il quinto e più importante pilastro della religione di Maometto, che ogni buon musulmano dovrebbe compiere almeno una volta nella vita. Ma al di là di queste legittime attività, le dichiarazioni politiche dei diversi capi del movimento non lasciano adito a dubbi: Israele non è riconosciuto come legittimo stato sovrano e va sostituito da un califfato islamico. I modi ed i termini di questa “augurabile” trasformazione variano dai “nordisti” ai “sudisti”, laddove l’importante differenza è che questi ultimi partecipano al gioco democratico cercando di cambiare la situazione dall’interno del sistema democratico.
Non c’è dubbio che oltre ad essere un movimento politico, quello islamico è anche una realtà sociale presente sul territorio in maniera capillare e gode di una grande popolarità, e questo è forse il maggior problema di una decisione del genere. Sia Nathanyau che il ministro della difesa Moshe “Bughy” Ayalon hanno dato l’impressione di aver sposato una scelta populista per accattivarsi l’opinione pubblica nazionale. Non a caso infatti, lo Shabaq, i servizi di sicurezza interna, si è decisamente opposto ad una decisione del genere, affermando che è preferibile controllare un’organizzazione sia pur problematica come il movimento islamico operante alla luce del sole piuttosto che un gruppo clandestino che per forza di cose si rivelerà molto più difficile da monitorare se messo al bando. La sensazione, fra gli arabi israeliani, è che il movimento di Salah sia perseguitato ingiustamente con il serio pericolo così di ottenere un effetto perverso: ossia che il fatto di averlo posto fuorilegge non faccia che aumentarne la popolarità che già oggi si aggira attorno al 50%.
Il cavallo di battaglia del movimento islamico israeliano consiste in uno slogan coniato nel lontano 1996: “la moschea di El Aqsa è in pericolo”, un atto di accusa verso i continui scavi archeologici in corso nella città vecchia di Gerusalemme e nelle sue dirette vicinanze. Non a caso, è proprio nel 1996 che scoppiarono i primi e violenti scontri armati fra Israele e l’Autonomia Palestinese, entità che si era appena formata all’indomani della firma degli accordi di Oslo. Gli scontri furono il risultato diretto dell’apertura del tunnel, la galleria sotterranea che collega la spianata del Muro del Pianto al quartiere arabo della città vecchia voluta da Nethanyau. In verità, sono stati proprio i palestinesi quelli che fino ad oggi hanno messo in serio pericolo la moschea di El Aqsa avendo costruito nei suoi sotterranei un’enorme moschea in quelle che vengono denominate le stalle di Re Salomone ed erano in definitiva le arcate costruite da Erode per poter ampliare la spianata del Tempio. Ancora più importante è il timore delle rinnovate “visite” da parte di una notevole parte dell’ebraismo nazional religioso che forte di nuove dispense rabbiniche ha di fatto ricevuto il nulla osta e l’incoraggiamento di poter camminare sulla spianata del Tempio senza incorrere nel pericolo di calpestare la zona sacra del santuario. In ogni caso la parola d’ordine del movimento islamico ha avuto una grande presa fra gli arabi israeliani. Una volta all’anno, nella città di Um el Fahem, viene indetta una grande manifestazione (maharajan) a favore della moschea alla quale partecipano decine di migliaia di fedeli.
Una volta di più, Israele si trova di fronte ad un dilemma democratico di difficile soluzione, sarà molto difficile provare senza ombra di dubbio che il movimento islamico non è soltanto un’organizzazione pacifica i cui scopi dichiarati sono quelli del riavvicinamento dei musulmani “tiepidi” alla religione e poi la raccolta di fondi per sviluppare attività educative e sociali in un settore della popolazione dove la presenza governativa è molte volte carente. I probabili rapporti fra il movimento islamico e Hamas sono da cercare nei canali finanziari attraverso i quali una parte dei fondi raccolti arrivano nella striscia di Gaza o viceversa attraverso materiale propagandistico introdotto in Israele da elementi ostili . Ed è proprio sul piano finanziario che si giocherà la partita decisiva: il movimento islamico è finanziato da numerose organizzazioni no profit che una volta chiuse potrebbero riaprirsi con una nuova denominazione ed un nuovo statuto. E’ un fenomeno che si è già verificato e contro il quale non è chiaro quali possano essere le nuove soluzioni con cui combatterlo. In ogni caso l’ultima parola spetta all’Alta corte di giustizia israeliana che più di una volta ha annullato decisioni del genere giudicandole anticostituzionali.

 
Chi è Raed Saleh
Il leader della Northern Branch

Raed Salah Abu Shakra è il leader dell’ala nord del Movimento Islamico in Israele. Nato a Umm al-Fahm in Cisgiordania, è fra i fondatori di Hamas e ha lavorato per l’Intelligence iraniana. Negli anni è sempre sceso in piazza contro il governo di Gerusalemme in manifestazioni di protesta. È stato più volte arrestato e portato in carcere per incitamento alla violenza, e più volte gli è stato vietato di uscire dal Paese e di entrare a Gerusalemme. Nel 2010 sconta cinque mesi per avere attaccato un poliziotto israeliano. Nello stesso anno partecipa alla Gaza Freedom Flottilla organizzata sulla nave Mavi Marmara, in cui rimane leggermente ferito. L’anno dopo viene arrestato in Gran Bretagna, dove si era recato per una manifestazione di solidarietà per la Palestina organizzata alla House of Commons da alcuni parlamentari del Labour Party. Molte, poi, le sue dichiarazioni contro gli ebrei e i suoi inneggiamenti al califfato islamico. In un sermone del 2014 a Nazareth, ad esempio, ha dichiarato: “Inshallah, Gerusalemme diventerà presto la capitale del califfato globale”.