Ricordo di Aurelio Ascoli. Spirito poliedrico, insigne fisico, severo e amato professore di università

Necrologi

di Liliana Picciotto

Spirito poliedrico, insigne fisico, severo e amato professore di università, dotato di una memoria eccezionale, era curioso di tutto quello che lo circondava; fu capace, negli ultimi anni, di trasformarsi in storico ed aiutarmi negli studi sulla storia degli ebrei in Italia. Fu lui negli Anni Novanta del ‘900, a condurre le ricerche di documenti riguardanti l’Italia ai National Archives di Alexandra, dato che periodicamente si recava a trovare il figlio Giorgio e la sua famiglia a Fairfax, vicino a Washington. Erano documenti straordinari: le trascrizioni che i servizi segreti inglesi avevano fatto delle telefonate che Herbert Kappler, capo della polizia tedesca a Roma, aveva scambiato con i suoi superiori a Berlino nel 1943, in cui si parla anche della retata degli ebrei romani dell’ottobre del 1943. Occorreva che qualcuno si occupasse di ricercarli e raccoglierli e quel qualcuno fu Ascoli.

Nato nel 1929, era forse il decano della comunità ebraica di Milano, con una lunga e ricca  storia alle spalle, che visse consapevolmente dall’inizio alla fine. Era uno degli ultimi che aveva visto la Shoah: si era spaventato, era fuggito,  aveva portato la sorellina sulle spalle nell’attraversamento del confine italo-svizzero e, al ritorno, aveva saputo ricostruire la sua vita. Raccontava la sua rocambolesca fuga, lui tredicenne, ad amici e allievi delle scuole dove amava andare a parlare e tutti lo seguivano a bocca aperta perché aveva anche il dono dell’affabulazione.

Al rientro in Italia, nell’estate del 1945, il padre Alberto, importante dirigente della ENEL, fu assegnato alla sede di Novara.  Aurelio iniziò là il ginnasio, per, dopo poco, decidere di rientrare alla scuola ebraica di via Eupili per non perdere i contatti con Milano. Raccontava che fu decisione molto sofferta, si sobbarcò  un pendolarismo quotidiano con orari assurdi: un solo treno al giorno in andata al mattino e uno solo in ritorno al pomeriggio. Erano tradotte militari senza panche, trainate da locomotive a vapore lentissime che impiegavano per 42 km di percorso 1 ora e 40 minuti. Per fare questo si alzava al mattino alle 5 e rientrava a casa alle 20:30 giusto in tempo per cena e poi immediatamente a letto. I compiti li faceva in piedi nel vagone privo di illuminazione, affacciandosi al portellone aperto per sfruttare le luci dell’alba e del crepuscolo, col quaderno nella mano sinistra, la penna nella destra, il testo da tradurre e il vocabolario sull’avambraccio.

Rientrata la famiglia a Milano, terminò il liceo in una fiorente, amata e molto frequentata scuola ebraica. Laureatosi in ingegneria nel 1954 (per fare piacere al padre come diceva spesso) ma innamorato della fisica che era la sua materia di elezione, fu assunto, da giovane laureato, come ricercatore presso il CISE, l’istituto di fisica nucleare di cui scalò in seguito tutti i gradini fino a diventarne dirigente. Riferiva che si era sobbarcato il turno di notte per guadagnare qualcosa in più. Nel 1960 venne mandato per  22 mesi di esperienza negli Stati Uniti. Doveva imbarcarsi. Non aveva soldi per pagarsi il viaggio, così, propose alla compagnia navale di assumerlo per dare lezione di inglese ai turisti italiani, in andata, e di italiano ai turisti americani, in ritorno. Rientrato in Italia, si  dedicò a far crescere i cristalli. Io non capivo, che cosa vuol dire far crescere una cosa inanimata? Mi spiegò che esiste la possibilità di formare una struttura solida cristallina da una fase fluida liquida o gassosa quando le molecole si organizzano in ordine regolare attorno ad un atomo. Dischiuse un mondo a me sconosciuto, da lui ho imparato che la fisica è il segreto su cui si basa il meccanismo del mondo; da allora, mi chiesi come fosse possibile che molti di noi che si interrogano sui grandi temi che riguardano l’umanità non se ne interessino affatto.  Non si può non domandarsi, come faceva costantemente lui, come funziona il creato, dal più piccolo atomo al più grande universo e come tutte le parti siano in interazione perenne le une con le altre.

Fu per un anno anche insegnante alla scuola ebraica e, in seguito apprezzatissimo professore al Politecnico di Milano. Indimenticabili sono di ogni anno la lettura della sua parashat Noach in via Eupili, con tanto di derashà che si riferiva al diluvio e ai cambiamenti climatici, tolti dal suo sapere di fisico. Faceva parte dell’ormai sparuto drappello dei “grandi vecchi” che racchiudevano in sé tutto un mondo. Parlava un inglese e un francese fluenti, capiva il tedesco, davanti ad un bel tramonto poteva recitare pezzi interi di Catullo in latino o versi di Foscolo a memoria (e lo fece, una volta, sulla tolda della nave che lo portava in vacanza nelle Isole Jonie declamando “A Zacinto” a un gruppo di divertiti turisti). Come un vero maestro, sulle cose che sapeva, poteva ripetere cento volte la stessa spiegazione, con naturalezza, senza scomporsi, non obbligando nessuno alla competizione intellettuale.  Dopo 26 anni di affettuosa amicizia, diceva ancora quando mi incontrava, con un fil di voce: “come sei bella!”.

Mi mancherà tantissimo.

Liliana Picciotto, 1 dicembre 2025

Foto in alto: una testimonianza al CISE

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