di Anna Balestrieri
La decisione del segretario generale, formalizzata nel rapporto annuale che sarà diffuso a metà agosto all’Assemblea Generale, rappresenta un riconoscimento ufficiale – sebbene molto tardivo – delle atrocità commesse dai terroristi palestinesi il 7 ottobre 2023 e nei mesi successivi contro gli ostaggi trattenuti a Gaza.
Per la prima volta, le Nazioni Unite hanno incluso Hamas nella lista nera delle organizzazioni che si macchiano di violenza sessuale durante conflitti armati. La decisione del segretario generale António Guterres, formalizzata nel rapporto annuale che sarà diffuso a metà agosto all’Assemblea Generale, rappresenta un riconoscimento ufficiale – sebbene molto tardivo – delle atrocità commesse dai miliziani palestinesi il 7 ottobre 2023 e nei mesi successivi contro gli ostaggi trattenuti a Gaza.
Il documento ONU parla di stupri, stupri di gruppo, mutilazioni genitali e abusi perpetrati con brutalità sistematica: crimini che rientrano a pieno titolo tra i crimini di guerra e contro l’umanità.
Dal silenzio internazionale alla conferma ONU
La svolta arriva dopo mesi di esitazioni. Già a marzo 2024 Pramila Patten, inviata speciale ONU sulla violenza sessuale nei conflitti, aveva visitato Israele, raccogliendo prove e testimonianze su quanto avvenuto nei kibbutzim attaccati, lungo la Route 232 e al festival Nova. “Quello che ho visto è stato un catalogo dell’orrore: violenze sessuali inaudite, torture, mutilazioni. Una brutalità che non dimenticherò mai”, dichiarò allora.
Nonostante l’evidenza, lo scorso anno Guterres aveva resistito alle pressioni di Israele per inserire Hamas nella lista. È servito un intenso lavoro diplomatico e, soprattutto, l’accumulo di documentazione indipendente — come quella del Dinah Project — perché l’ONU arrivasse a un pronunciamento ufficiale.
Il Dinah Project: prove di violenze sistematiche
Il rapporto Dinah Project curato da Ruth Halperin-Kaddari, Sharon Zagagi-Pinhas e Nava Ben-Or ha rappresentato una svolta. Pubblicato nel luglio 2025, ha raccolto testimonianze di sopravvissuti, ostaggi liberati, soccorritori e terapisti, delineando un quadro inequivocabile: la violenza sessuale non fu episodica, ma parte integrante della strategia di Hamas.
Il testo parla di donne e uomini seviziati in vita e dopo la morte, corpi denudati e mutilati, ossa spezzate dalla brutalità delle aggressioni, necrofilia, coltelli e granate inserite nei genitali delle vittime. Scene raccapriccianti che smentiscono chi ha tentato di minimizzare o negare.
“Non si è trattato di episodi isolati — afferma Zagagi-Pinhas — ma di uno schema ricorrente, premeditato. La violenza sessuale è stata usata come tattica militare”.
Il fallimento delle istituzioni internazionali
Uno degli aspetti più dolorosi, sottolineano le autrici, è il silenzio di organizzazioni che avrebbero dovuto difendere le vittime. In particolare UN Women è stata accusata di non aver applicato il principio cardine del movimento femminista globale: credere ai sopravvissuti. “Ci sentiamo tradite da altre donne nel mondo”, ha dichiarato Halperin-Kaddari.
Una delusione che ha trovato eco anche in Israele, dove è nato l’hashtag #MeTooUnlessYou’reAJew: un’amara constatazione della disparità di attenzione e solidarietà riservata alle vittime ebree del 7 ottobre.
Dalla verità alla giustizia
L’inclusione di Hamas nella lista nera ONU non è la fine, ma un punto di partenza. “Ora bisogna passare dal riconoscimento all’azione”, chiedono i responsabili del Dinah Project, sollecitando la Corte penale internazionale e i tribunali nazionali a perseguire i responsabili.
Secondo la giudice Nava Ben-Or, occorre anche un’evoluzione giuridica: riconoscere la responsabilità collettiva per crimini sessuali di massa, senza dover individuare il singolo aggressore. “Chi ha partecipato all’attacco è responsabile delle sue conseguenze”, afferma.
Un monito alla memoria
Il 7 ottobre 2023 Hamas uccise 1.200 persone, di cui 378 solo al festival Nova. Le violenze sessuali non furono un “effetto collaterale”, ma uno strumento deliberato di terrore, umiliazione e annientamento.
La decisione ONU segna un cambio di passo storico. Ma resta un interrogativo: perché ci è voluto quasi due anni perché la comunità internazionale credesse alle vittime?
Le sopravvissute, le famiglie e chi ha perso i propri cari chiedono che questa volta il mondo non distolga lo sguardo. “Questo non è il momento del dubbio ideologico — scrivono le autrici del Dinah Project — ma della giustizia e della memoria”.