Israele, i drusi, la Siria: il confine che si sgretola 

Mondo
di Anna Balestrieri
Martedì sera, 15 luglio decine di uomini drusi israeliani hanno attraversato la frontiera per andare nella città siriana di Sweida, dove le milizie druse, gruppi beduini armati e forze del regime siriano si affrontavano: più di 300 morti. L’esercito israeliano è intervenuto, colpendo il Ministro della della Difesa e il palazzo presidenziale a Damasco. (Foto: screenshot)

Majdal Shams, Alture del Golan. Martedì sera, 15 luglio, mentre le ombre del tramonto si allungavano sulle recinzioni elettrificate del confine israelo-siriano, decine di uomini drusi hanno attraversato la frontiera. Non per fuggire da una guerra, ma per entrare in essa.

Nella città siriana di Sweida, a meno di 40 chilometri da lì, si combatteva da giorni. Le milizie druse, gruppi beduini armati e forze del regime siriano si affrontavano in una spirale di vendette, sequestri, rappresaglie e bombardamenti. Più di 300 morti. Poi, martedì notte, gli F-35 israeliani hanno sorvolato Damasco. Hanno colpito il ministero della Difesa e il palazzo presidenziale. La risposta di Israele agli appelli della propria comunità drusa: “Salvate i nostri fratelli.”

Una battaglia di sopravvivenza

Una battaglia per la sopravvivenza del popolo druso“: così l’ha definita Sheikh Muwaffaq Tarif, guida spirituale dei drusi in Israele, chiedendo una manifestazione di massa nelle Alture del Golan. Per la prima volta, un governo israeliano ha autorizzato bombardamenti nel cuore del potere siriano dichiarando di voler difendere una minoranza etno-religiosa al di là dei propri confini.

Ma la narrazione non è unanime. Dall’altra parte del confine, le stesse voci druse si levano per denunciare l’interferenza. “Non vogliamo la protezione di Israele”, hanno scritto in un comunicato congiunto i religiosi di Sweida. “Siamo siriani. Vogliamo vivere in una Siria sovrana.”

Nel frattempo, il confine non ha retto. Da Majdal Shams, cittadini israeliani di origine drusa – molti con famiglia a Sweida – si sono riversati oltre il filo spinato. Non si sa con certezza cosa cercassero: vendetta, salvezza, senso d’onore. Alcuni volevano solo riportare i caduti a casa.

Il premier Netanyahu li ha invitati a tornare indietro. “Potreste essere uccisi. State danneggiando gli sforzi dell’IDF.” Ma la narrazione ufficiale – Israele che “protegge i suoi fratelli drusi” – si incrina se i fratelli non chiedono protezione.

Il genocidio druso 

A Isfiya e Daliyat al-Carmel, i sindaci parlano apertamente di genocidio dei drusi a opera del governo di Al-Jolani. “Una pulizia etnica silenziosa,” ha detto Monib Saba. Le immagini che filtrano da Sweida – ospedali sovraffollati, monumenti distrutti, civili feriti – sembrano confermarlo. Ma la linea tra realtà e retorica si fa sottile quando diventa leva politica.

Gli Stati Uniti condannano gli attacchi israeliani. Gli Emirati difendono la sovranità siriana. Intanto, nell’ambiguità del conflitto, i drusi si trovano divisi su più fronti: tra Beduini e Assad, tra appartenenza religiosa e identità nazionale, tra Israele e la Siria, tra lealtà e sopravvivenza.

Il futuro del conflitto

Chi ha attraversato il confine non sa se tornerà. I soldati israeliani hanno ricevuto l’ordine di fermare nuove incursioni. Ma come si ferma un popolo che sente che la propria storia si gioca dall’altra parte del recinto?

Nel cuore del conflitto, resta Sweida. Non più solo provincia drusa, ma simbolo fragile di una Siria frantumata, di un Medio Oriente in cui le linee etniche, religiose e geopolitiche si sovrappongono e si contraddicono.