Finzi: sono un ebreo di periferia, che ama la diaspora e la dialettica

di Fiona Diwan

Enrico Finzi

Si considera un ebreo minoritario, di periferia, un ebreo di confine, dice lui, “anche se noi ebrei siamo plurimi per definizione. Sono nato nel 1946, tipico figlio del dopoguerra, cresciuto negli anni dopo la Shoah e quindi un ebreo che non ha potuto sottrarsi al proprio ebraismo”. Dotato di uno spirito critico corrosivo e di un’affabilità spigolosa, provocatore nato, Enrico Finzi è considerato da anni tra i più brillanti sociologi italiani. Una verve icastica e un’anima ebraica profondamente razionale e illuminista, Finzi pensa a se stesso come a un “ebreo tra le righe”, considerato scomodo da alcuni ma in verità perfettamente organico alla tradizione ebraica novecentesca dell’ebreo dissonante e fuori dal coro. «Mi sento fiero di appartenere a un mondo ebraico in cui io possa sentirmi marginale. Non ho pretese di leadership, non rappresento nessuno. Che tipo di ebreo sono? Un ebreo diverger, divergente, come dicono gli americani, perfettamente inserito nella tradizione di conflitto e divergenza dell’ebraismo. Eppure, quello dell’appartenenza è un meccanismo complesso. Da bambino, ricordo che soffrivo del fatto di non essere iscritto alla Comunità di Milano. Il motivo? La mia famiglia era profondamente antifascista, mia madre, Matilde Bassani (era cugina di Giorgio Bassani), ricevette la medaglia d’oro del governo inglese come partigiana e mio zio Limentani perse la cattedra di filosofia per il suo antifascismo. All’epoca, a Ferrara scoppiò una polemica feroce, un gruppo di ebrei mussoliniani fondò la rivista La Nuova Bandiera, la qual cosa indignò mia madre a tal punto da decidere che non mi avrebbe più iscritto a una Comunità così spudoratamente schierata col Fascio. Dopo la Liberazione mia madre stessa si cancellò dalla Comunità, sostenendo che la Ferrara ebraica non meritava la sua presenza (resterà iscritta solo all’ADEI). Disgustata dalla compromissione col fascismo degli ebrei non iscrisse neppure me, mandandomi a una scuola pubblica. Ovviamente, per antitesi, appena compiuti 21 anni, a Milano, andai da rav Elia Kopciovski e mi iscrissi alla Comunità ebraica. In questo senso, sono stato un ebreo che, alla sua maggiore età, ha scelto di  nuovo di diventare ebreo. E di esserlo profondamente ma a modo suo. Come? Io sono l’espressione di una forma tipicamente italiana di ebraismo culturale, una tipologia peculiare che rivendico come parte di un’identità fortissima. Pago le tasse comunitarie dal primo giorno utile, mi sono sempre informato su tutto ciò che avviene in Comunità, ho sempre votato alle elezioni, sono di sinistra.

Abitualmente vengo considerato un pessimo ebreo (anche se in passato ho fatto attività comunitaria e il vice segretario FGEI), sono un sostenitore del valore dell’ebreo diasporico ma considero primaria la difesa dell’esistenza dello Stato d’Israele. Penso alla Torà come a un testo storico e non religioso, valuto i rabbini con spirito illuministico, ovvero sulla base non di una investitura ma di come si comportano e di ciò che dicono. Aiuto da sempre il Keren Hayesod ma se devo criticare il governo d’Israele lo faccio senza timori”.

Ti senti una mosca bianca?

No, credo che vari tra noi vivano l’ebraismo nel mio modo, soltanto che non lo dicono! Ho sempre amato parlare di ebraismi al plurale, e se dovesse prevalere un ebraismo al singolare non so se ci sarebbe più posto per me. La bellezza dell’ebraismo è che, sebbene piccoli e perseguitati, noi ebrei abbiamo alle spalle un’esperienza unica di unità nella pluralità. Pluralità che è uno strumento essenziale per difendere l’unità. Propendo per una teoria di tipo agricolo: se tu coltivi la terra solo con una semente la produttività di quel terreno si riduce. La grande rivoluzione del capitalismo agricolo è stata la rotazione dei campi: grano, mais, maggese, trifoglio…. Molte sementi, molti ebraismi, molta ricchezza e messi. Io sono un piccolo ebreo “trifoglio”: che conta poco ma è anch’esso utile, certo poco profondo ma con una sua dignità. Bisogna lasciar spazio anche agli ebrei deboli, gli ebrei della banlieu.

Che cosa intendi per identità diasporica oggi? Come sociologo-antropologo ritengo che la Storia vada letta alla luce del concetto di longue durée. Cosa dice la lunga durata? Che la nostra è una storia diasporica. E penso che Israele non basti a esaurire oggi l’esperienza ebraica. Siamo il portato di 2000 anni di diaspora, un valore positivo. Credo nell’esistenza di una diaspora orgogliosa, consapevole di sé, interessata alla dialettica del rapporto con Israele.

Che cos’è l’ebraismo culturale?

Sta in una serie di messaggi dal valore universale, che noi rappresentiamo -non in esclusiva, beninteso-. Che valori? Ad esempio, il senso dell’appartenenza dell’individuo alla dimensione comunitaria e collettiva, individuo che non è mai una monade ma che cammina in cordata; e poi il rigetto dell’idolatria, che vuol dire la purificazione valoriale, l’essenzializzazione, lo spirito critico. Da illuminista trovo che è molto illuminista il modo in cui gli ebrei sono stati nel mondo, finora. Terzo valore: la polemicità tollerante. Ovvero riconoscere dignità e rispetto a posizioni diverse dalle tue. Il diritto allo scontro e al conflitto è stato il nostro contributo allo spirito liberale e alla democrazia. Il quarto valore è l’importanza della spiritualità. Io non sono religioso ma sento questa tensione spirituale altissima che innerva il mondo ebraico e che in alcune epoche storiche ha preso il nome di messianesimo. Ma, in verità, è il mix tra questi quattro valori culturali che è straordinario, esplosivo e unico.

E poi l’alfabetismo, la cultura del libro, come quinto valore. Siamo il popolo del logos, della scrittura, della lettura, del commento e dell’interpretazione multipla. Non amiamo l’univocità. Laddove il nesso tra spiritualità e comportamenti è fondamentale, vedi il valore delle mitzvot. Una coerenza tra il mondo dello spirito e quello delle azioni e del comportamento. Riconosco la straordinarietà -e capisco che passa attraverso la religione- del fattore mitzvot. Infine il valore dell’internazionalità, il cosmopolitismo. Internazionalità vuol dire trovare un’intesa immediata gli uni con gli altri, capirsi anche se si è vissuti lontanissimi… ed è questa cosa che manda fuori di testa tutti, i fascisti, i nazisti e gli antisemiti anche di sinistra. Inoltre, ritengo che il pluralismo ci aiuti a difenderci dall’adorazione acritica di noi stessi, che è un pericolo che ogni tanto riaffiora, sotto forma di tentazione a chiudersi. Per paura, si sta diffondendo la storiella che l’identità ebraica sia unica e identica. Non è così. Siamo parti diverse di uno stesso corpo. E poi, non si può essere ebrei pacifici. Io sono per gli ebrei che si battono, orgogliosi, polemici, e nel mio piccolo cerco di essere conflittualmente ebreo, di portare un elemento di diversità e favorire così il contesto in cui mi trovo. Dobbiamo alimentare il fascino per il diverso, ovunque e sempre. E sono fiero di essere forse lo strumento più periferico di questa orchestra, quello meno importante (il triangolo).

Quale interazione tra Enrico Finzi ebreo e una città come Milano?

Di solito non nascondo mai di essere ebreo, anzi lo dichiaro subito perché ho l’orgoglio della mia appartenenza. Io credo che gli ebrei italiani abbiano dato un contributo rilevante alla storia di questa città e Paese, dal Risorgimento in avanti. Ma ciò su cui mi soffermo è il contributo di ricchezza e intelligenza in termini di umanità. Penso alla schiera di medici ebrei, penso alla nascita del Politecnico di Milano. Contributo alle scienze fisiche, chimiche, alla costruzione di una cultura scientifica in un paese umanistico. Al di là dei Nobel, dei premi ufficiali, degli ebrei illustri, penso ai piccoli medici di quartiere, ai Marcello Cantoni, ai magistrati, agli avvocati, alle arti liberali, esempi di generosità e di moralità, un contributo silente che a Milano è stato molto evidente. Più che a Roma, dove la connotazione commerciale è sempre stata forte e dove gli ebrei sono sempre stati più sovraesposti. Questa città oggi è profondamente degradata. Quasi imbarbarita. Un tempo qui si era sviluppata una tradizione di accoglienza e di inclusività, penso alla retorica della Madonnina, una Milano dal cuore grande che accoglieva gli emigranti con la valigia di cartone. Io credo che noi ebrei, per la nostra storia, dobbiamo stare con la metà della città che ha il cuore caldo perché abbiamo, anche noi, patito l’esclusione, la discriminazione, l’odio. Portatori di una tolleranza affettuosa e simpatetica. Sembro un missionario? No, resto un illuminista ebreo.