Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il capitolo di apertura di Kedoshim contiene regole chiare che creano e sostengono un ordine sociale. È lì che appartiene il vero amore – non il surrogato sentimentale e autoingannevole. Senza ordine, l’amore non fa che aumentare il caos.
Il capitolo di apertura di Kedoshim contiene due dei più potenti precetti fra tutti: amare il prossimo e amare lo straniero. “Ama il tuo prossimo come te stesso: Io sono il Signore” è il primo. “Quando uno straniero verrà ad abitare nella vostra terra, non maltrattatelo”, dice il secondo, e continua: “Trattate lo straniero come colui che è nato tra voi. Amatelo come voi stessi, poiché anche voi foste stranieri in Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Levitico 19:33-34).
Il primo è spesso chiamato la “regola d’oro” e ritenuto universale in tutte le culture. Questo però è un errore. La regola d’oro è diversa. Nella sua formulazione positiva afferma: “Comportati verso gli altri come vorresti che loro si comportassero verso di te”, oppure nella sua formulazione negativa, data da Hillel: “Ciò che è odioso per te, non farlo al tuo prossimo.” Queste regole non riguardano l’amore. Riguardano la giustizia, o più precisamente, ciò che gli psicologi evoluzionisti chiamano altruismo reciproco. La Torà non dice: “Sii gentile o buono con il tuo prossimo, perché vorresti che lui fosse gentile o buono con te.” Dice: “Ama il tuo prossimo.” Questo è qualcosa di diverso e molto più forte.
Il secondo comando è ancora più radicale. La maggior parte delle persone, nella maggior parte delle società, nella maggior parte delle epoche, ha temuto, odiato e spesso fatto del male allo straniero. Esiste una parola per questo: xenofobia. Quante volte hai sentito la parola opposta: xenofilia? Immagino, mai. Di solito le persone non amano gli stranieri. Ecco perché, quasi sempre quando la Torà enuncia questo comando – che, secondo i Maestri, compare 36 volte – aggiunge una spiegazione: “perché foste stranieri in Egitto.” Non conosco nessun’altra nazione che sia nata come nazione in schiavitù e in esilio. Sappiamo cosa significa essere una minoranza vulnerabile. Ecco perché l’amore per lo straniero è così centrale nell’Ebraismo e così marginale nella maggior parte degli altri sistemi etici. Ma anche qui, la Torà non usa la parola “giustizia.” Esiste un comando di giustizia verso gli stranieri, ma è una legge diversa: “Non opprimere lo straniero e non fargli torto” (Esodo 22:20). Qui la Torà non parla di giustizia, ma di amore.
Questi due comandi definiscono l’Ebraismo come una religione dell’amore – non solo verso Dio (“con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze”), ma anche verso l’umanità. Questa era – ed è – un’idea che ha cambiato il mondo.
Ma ciò che richiede una riflessione profonda è dove appaiono questi precetti. Lo fanno nella parashà di Kedoshim, in quello che, agli occhi contemporanei, deve sembrare uno dei passaggi più strani della Torà.
Levitico 19 mette fianco a fianco leggi apparentemente di tipo molto diverso. Alcune appartengono alla vita morale: non sparlare, non odiare, non vendicarti, non serbare rancore. Alcune riguardano la giustizia sociale: lasciare parte del raccolto ai poveri; non commettere iniquità nella giustizia; non trattenere il salario; non usare pesi e misure false. Altre hanno un tono del tutto diverso: non incrociare il bestiame; non seminare un campo con semi misti; non indossare un indumento di lana e lino misti; non mangiare i frutti dei primi tre anni; non mangiare sangue; non praticare la divinazione; non lacerarti.
A prima vista, queste leggi non hanno nulla a che fare l’una con l’altra: alcune riguardano la coscienza, altre la politica e l’economia, e altre ancora la purezza e il tabù. Chiaramente, però, la Torà ci sta dicendo il contrario. Hanno qualcosa in comune. Riguardano tutte l’ordine, i limiti, i confini. Ci stanno dicendo che la realtà ha una certa struttura sottostante la cui integrità deve essere rispettata. Se odi o ti vendichi, distruggi le relazioni. Se commetti ingiustizia, minacci la fiducia su cui si basa la società. Se non rispetti l’integrità della natura (semi diversi, specie diverse, ecc.), fai il primo passo su una strada che porta al disastro ambientale.
Esiste un ordine nell’universo, in parte morale, in parte politico, in parte ecologico. Quando quell’ordine viene violato, alla fine arriva il caos. Quando quell’ordine viene osservato e preservato, diventiamo co-creatori dell’armonia sacra e della diversità integrata che la Torà chiama “santa”.
Perché dunque proprio in questo capitolo appaiono i due grandi comandi – l’amore per il prossimo e per lo straniero? La risposta è profonda e tutt’altro che ovvia: perché è qui che l’amore trova il suo posto – in un universo ordinato.
Jordan Peterson (1962-…), psicologo canadese, è recentemente diventato uno degli intellettuali pubblici più influenti del nostro tempo. Il suo libro, Twelve Rules for Life, è stato un enorme best-seller in Gran Bretagna e in America. Ha avuto il coraggio di essere un contrarian, sfidando le fallacie alla moda dell’Occidente contemporaneo. Particolarmente notevole nel libro è la Regola 5: “Non permettere ai tuoi figli di fare nulla che ti faccia disprezzarli.”
Il suo punto è più sottile di quanto sembri. Un numero significativo di genitori oggi, dice, non riesce a socializzare i propri figli. Li indulgono. Non insegnano loro le regole. Secondo Peterson, ci sono ragioni complesse per questo. Alcune riguardano la mancanza di attenzione. I genitori sono impegnati e non hanno tempo di insegnare loro la disciplina. Alcune derivano dall’idea influente, ma fuorviante, di Jean-Jacques Rousseau, secondo cui i bambini sono naturalmente buoni e diventano cattivi a causa della società e delle sue regole. Quindi il modo migliore per crescere bambini felici e creativi è lasciarli scegliere da soli.
In parte, però, dice anche che è perché “i genitori moderni sono semplicemente paralizzati dalla paura di non essere più amati o nemmeno apprezzati dai loro figli se li rimproverano per qualche motivo.” Hanno paura di danneggiare il loro rapporto dicendo ‘No’. Temono di perdere l’amore dei loro figli.
Il risultato è che lasciano i figli pericolosamente impreparati a un mondo che non sarà indulgente con i loro desideri o la loro voglia di attenzione; un mondo che può essere duro, esigente e a volte crudele. Senza regole, competenze sociali, autocontrollo e capacità di restituire riconoscimenti, i bambini crescono senza un tirocinio nella realtà. La sua conclusione è potente:
“Regole chiare rendono i bambini sicuri e i genitori calmi e razionali. Principi chiari di disciplina e punizione equilibrano misericordia e giustizia in modo da promuovere al meglio lo sviluppo sociale e la maturità psicologica. Regole chiare e disciplina adeguata aiutano il bambino, la famiglia e la società a stabilire, mantenere ed espandere l’ordine. Questo è tutto ciò che ci protegge dal caos.”
Questo è ciò di cui parla il capitolo di apertura di Kedoshim: regole chiare che creano e sostengono un ordine sociale. È lì che appartiene il vero amore – non il surrogato sentimentale e autoingannevole. Senza ordine, l’amore non fa che aumentare il caos. L’amore mal riposto può portare a negligenza genitoriale, producendo bambini viziati con un senso di diritto che sono destinati a una vita adulta infelice, insoddisfatta, senza successo.
Il libro di Peterson, il cui sottotitolo è “Un antidoto al caos”, non parla solo di bambini. Parla del disordine che l’Occidente ha creato da quando i Beatles cantavano (nel 1967): “All you need is love” (“Tutto ciò di cui hai bisogno è amore”). Come psicologo clinico, Peterson ha visto il costo emotivo di una società senza un codice morale condiviso. Le persone, scrive, hanno bisogno di principi ordinatori, senza i quali c’è il caos. Abbiamo bisogno di “regole, standard, valori – da soli e insieme. Abbiamo bisogno di routine e tradizione. Questo è l’ordine.” Troppo ordine può essere negativo, ma troppo poco può essere peggio. La vita, dice, si vive al meglio sulla linea di confine tra i due. È lì, dice, che “troviamo il significato che giustifica la vita e la sua inevitabile sofferenza.” Forse, se vivessimo in modo corretto, aggiunge, “potremmo sopportare la consapevolezza della nostra fragilità e mortalità, senza quel senso di vittimismo oltraggiato che produce prima risentimento, poi invidia, e infine desiderio di vendetta e distruzione.”
Questa è una delle spiegazioni più acute che io abbia mai sentito per la struttura unica del Levitico 19. La sua combinazione di leggi morali, politiche, economiche e ambientali è un’affermazione suprema di un universo di ordine (divinamente creato) di cui siamo i custodi. Ma il capitolo non riguarda solo l’ordine. Riguarda umanizzare quell’ordine attraverso l’amore – l’amore per il prossimo e lo straniero. E quando la Torà dice: non odiare, non vendicarti, non serbare rancore, è una sorprendente anticipazione delle osservazioni di Peterson sul risentimento, sull’invidia e sul desiderio di vendetta e distruzione.
Da qui l’idea che cambia la vita e che abbiamo dimenticato per troppo tempo: l’amore non basta. Le relazioni hanno bisogno di regole.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Dipinto di Yoram Raanan)