Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La nostra Parashà inizia con una restrizione sulle persone secondo la quale un kohen può diventare tamè, parola solitamente tradotta come contaminato, impuro, cerimonialmente impuro. Un sacerdote non può toccare né trovarsi sotto lo stesso tetto di un cadavere. Deve restare distante dal contatto ravvicinato con i morti (fatta eccezione per un parente stretto, definito nella nostra Parashà come sua moglie, un genitore, un figlio, un fratello o una sorella non sposata). La legge per il Kohen Gadol (Sommo Sacerdote) è ancora più severa. Egli non può permettersi di diventare cerimonialmente impuro nemmeno per un parente stretto, sebbene sia lui che un sacerdote ordinario possano farlo per un met mitzvà, cioè una persona che non ha nessun altro che si occupi del suo funerale. In tal caso, l’esigenza fondamentale della dignità umana prevale sull’imperativo sacerdotale della purezza.
Queste leggi, insieme a molte altre in Vayikrà e Bamidbàr – specialmente il rito della Giovenca Rossa, usato per purificare coloro che erano venuti in contatto con i morti – sono difficili da comprendere per noi oggi. Lo erano già ai tempi dei Maestri. Rabban Yochanan ben Zakkai è famoso per aver detto ai suoi studenti: “Non è che la morte contamina né che le acque [della Giovenca Rossa] purificano. Piuttosto, Dio dice: ho stabilito uno statuto e proclamato un decreto, e non avete il permesso di trasgredirlo.” L’implicazione sembra essere che queste regole non abbiano una logica. Sono semplicemente comandi divini.
Queste leggi sono effettivamente sconcertanti. La morte contamina. Ma lo fa anche la nascita (Levitico 12). Lo strano gruppo di fenomeni noti come tzarat, solitamente tradotto come lebbra, non corrisponde a nessuna malattia nota, poiché è una condizione che può colpire non solo una persona, ma anche indumenti e pareti di case (Levitico 13–14). Non conosciamo nessuna condizione medica che corrisponda a questo.
Poi, nella nostra Parashà, c’è l’esclusione dal servizio nel Santuario di un kohen che ha una menomazione fisica – qualcuno che è cieco o zoppo, ha il naso deformato o un arto storto, una schiena curva o il nanismo (Levitico 21:16–21). Perché? Una tale esclusione sembra contraddire il seguente principio: “Il Signore non guarda ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza esteriore, ma il Signore guarda il cuore.” (1 Samuele 16:7)
Perché l’apparenza esteriore dovrebbe influenzare se uno può o meno servire come sacerdote nella casa di Dio?
Eppure questi decreti hanno una logica sottostante. Per capirli, dobbiamo prima comprendere il concetto di santo. Dio è al di là dello spazio e del tempo, eppure ha creato lo spazio e il tempo così come gli esseri fisici che li abitano. Dio è quindi “nascosto”. La parola ebraica per universo, olam, deriva dalla stessa radice ebraica di ne’elam, “nascosto”. Come dicono i mistici: la creazione ha comportato tzimtzum, l’auto-ritrazione divina, poiché senza di essa né l’universo né noi potremmo esistere. In ogni punto, l’infinito annienterebbe il finito.
Eppure, se Dio fosse completamente e permanentemente nascosto dal mondo fisico, sarebbe come se fosse assente. Dal punto di vista umano non ci sarebbe differenza tra un Dio inconoscibile e un Dio inesistente. Pertanto, Dio ha stabilito il sacro come il punto in cui l’Eterno entra nel tempo e l’Infinito entra nello spazio. Il tempo sacro è Shabbat. Lo spazio sacro era il Tabernacolo, e in seguito il Tempio.
L’eternità di Dio contrasta nel modo più netto con la nostra mortalità. Tutto ciò che vive morirà un giorno. Tutto ciò che è fisico prima o poi si deteriorerà e cesserà di esistere. Perfino il sole e l’universo stesso diventeranno, alla fine, estinti. Da qui deriva l’estrema delicatezza e pericolosità del Tabernacolo o del Tempio: il punto in cui Ciò-che-è-al-di-là-del-tempo-e-dello-spazio entra nel tempo e nello spazio. Come la materia e l’antimateria, la combinazione del puramente spirituale e dell’inconfondibilmente fisico è esplosiva e dev’essere protetta. Così come un esperimento altamente sensibile deve essere condotto senza la minima contaminazione, lo spazio sacro doveva essere mantenuto libero da condizioni che esprimessero mortalità.
La tumà quindi non dovrebbe essere considerata “contaminazione”, come se ci fosse qualcosa di sbagliato o peccaminoso. La tumà riguarda la mortalità. La morte parla di mortalità, ma anche la nascita. Una malattia della pelle come la tzarat ci rende vividamente consapevoli del corpo. Così anche un attributo fisico insolito come un arto deformato. Perfino la muffa su un indumento o sul muro di una casa è un sintomo di decadimento fisico. Non c’è nulla di eticamente sbagliato in tutto ciò, ma attirano la nostra attenzione sul fisico e sono quindi incompatibili con lo spazio sacro del Tabernacolo, dedicato alla presenza del non-fisico, dell’Eterno Infinito che non muore né decade.
C’è un esempio eloquente di questo all’inizio del libro di Giobbe. In una serie di colpi devastanti, Giobbe perde tutto: greggi, armenti, figli. Eppure la sua fede rimane intatta. Il Satan propone allora una prova ancora più grande, ricoprendo il suo corpo di piaghe. La logica di questo sembra assurda. Come può una malattia della pelle essere una prova di fede più grande che perdere i propri figli? Non lo è. Ma il libro vuole dire che quando il corpo è afflitto, può essere difficile, persino impossibile, concentrarsi sulla spiritualità. Questo non ha nulla a che fare con la verità ultima e tutto a che fare con la mente umana. Come disse Maimonide, non si può dedicare la mente alla meditazione sulla verità quando si è affamati o assetati, senza casa o malati.
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Questa è la logica – se si può chiamare logica – della tumà. Non ha nulla a che fare con la razionalità e tutto con l’emozione (ricordiamo l’osservazione di Pascal: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”). Tumà non significa contaminazione. Significa ciò che ci distrae dall’eternità e dall’infinito rendendoci fortemente consapevoli della mortalità, del fatto che siamo esseri fisici in un mondo fisico.
Ciò che il Tabernacolo rappresentava nello spazio e lo Shabbat nel tempo era alquanto radicale. Non era raro nel mondo antico, né lo è in alcune religioni oggi, credere che qui sulla terra tutto sia mortale. Solo in Cielo o nell’aldilà incontreremo l’immortalità. Per questo molte religioni, sia in Oriente che in Occidente, sono state oltre-mondane.
Nel giudaismo, la santità esiste dentro questo mondo, nonostante il fatto che sia delimitata da spazio e tempo. Ma la santità, come l’antimateria, deve essere accuratamente isolata. Da qui la severità delle leggi dello Shabbat da un lato, e del Tempio e del sacerdozio dall’altro. Il santo è il punto in cui il cielo e la terra si incontrano, dove, attraverso un’intensa concentrazione e una completa assenza di preoccupazioni terrene, apriamo lo spazio e il tempo alla percezione della presenza di Dio, che è al di là dello spazio e del tempo. È un’intuizione dell’eternità nel mezzo della vita, che ci permette, nei nostri momenti più santi, di sentirci parte di qualcosa che non muore. Il sacro è lo spazio in cui riscattiamo la nostra esistenza dalla mera casualità e sappiamo di essere tenuti tra le “braccia eterne” di Dio.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl