Parashat Vayeshev. Parlare è un percorso di pace

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Dalla parashà di Vayeshev alla fine del libro di Bereshit leggiamo la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. Fin dall’inizio siamo immersi in un dramma di rivalità tra fratelli che sembra destinato a finire in tragedia.

Gli elementi ci sono tutti e iniziano con un inquietante favoritismo dei genitori. Giacobbe amava Giuseppe più degli altri figli. La Torà dice che questo era dovuto al fatto che “gli era nato in età avanzata”. Ma sappiamo anche che era perché Giuseppe era il primo figlio della sua amata Rachel, che era stata sterile per molti anni.

Giacobbe diede a questo favoritismo un simbolo visibile, la veste riccamente ornata o il mantello di molti colori che gli commissionò. La sola vista di questo mantello serviva da costante provocazione per i fratelli. A ciò si aggiungono le cattive notizie che Giuseppe portava al padre sui suoi fratellastri, i figli delle ancelle. E nel quarto versetto della parashà leggiamo quanto segue: Quando i suoi fratelli videro che il loro padre lo amava più di tutti loro, lo odiarono, velo yachlu dabro le-shalom. (Genesi 37:4)
Qual è il significato di quest’ultima frase? Ecco alcune traduzioni standard:
Non potevano rivolgergli una parola gentile.
Non potevano parlargli in modo pacifico.
Non potevano parlargli in termini amichevoli.

Rabbi Yonatan Eybeschutz (1690-1764 polacco) tuttavia, ha riconosciuto che la costruzione ebraica della frase è strana. Letteralmente significa “non potevano parlargli in pace”. Che cosa può significare? Rabbi Eybeschutz ci rimanda al comando in Vayikra 19:17: Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore. Dovrai sicuramente rimproverare il tuo prossimo e non sopportare il peccato a causa sua. (Levitico 19:17)

Ecco come Maimonide interpreta questo comando in considerazione alle relazioni interpersonali: Quando una persona pecca contro un’altra, la parte lesa non deve odiare l’offensore e tacere. . . è suo dovere informare l’autore del reato e dirgli: perché mi hai fatto questo? Perché hai peccato contro di me in questa faccenda? . . . Se l’autore del reato si pente e implora perdono, dovrebbe essere perdonato. (Hilchot Deot 6:6)

Il punto di vista di Rabbi Eybeschutz è semplice. Se i fratelli avessero potuto parlare con Giuseppe, avrebbero potuto dirgli della loro rabbia per la sua parlantina e della loro angoscia nel vedere il mantello multicolore. Avrebbero potuto parlare con franchezza del loro senso di umiliazione per il modo in cui il padre aveva favorito Rachel rispetto alla madre Lea, un favoritismo che ora si stava trasmettendo alla seconda generazione. Giuseppe avrebbe potuto comprendere i loro sentimenti. Avrebbe potuto diventare più modesto o almeno più riflessivo. Ma lo yachlu dabro le-shalom. Semplicemente non riuscivano a parlare. Come scrive Nachmanide, a proposito del comando: Non odierai tuo fratello nel tuo cuore: “Chi odia tende a nascondere il proprio odio nel cuore”.

Abbiamo qui un esempio di una delle grandi intuizioni della Torà, ovvero che la conversazione è una forma di risoluzione dei conflitti, mentre la rottura della comunicazione è spesso un preludio alla vendetta violenta.

Il caso classico è quello di Avshalom e Amnon, due fratellastri figli del re Davide. In un episodio sconvolgente, Amnon violenta la sorella di Avshalom, Tamar: Tamar si cosparse il capo di cenere e si strappò la tunica ornata che indossava; si mise una mano sulla testa e se ne andò, piangendo. E Avashalom, suo fratello, le disse: “Tuo fratello Amnon è stato con te? Per ora, sorella mia, taci; è tuo fratello. Non prendere a cuore questa faccenda”. E Tamar rimase, abbandonata, nella casa di suo fratello Avshalom. Quando il re Davide venne a sapere di questa vicenda, si infuriò. E Avshalom non volle dire una parola ad Amnon, né buona né cattiva, perché disprezzava Amnon per aver violato Tamar, sua sorella. (2 Samuele 13:19-22) Avshalom mantenne il silenzio per due anni. Poi invitò tutti i figli di Davide a un banchetto al momento della tosatura delle pecore e ordinò ai suoi servi di aspettare che Amnon fosse ubriaco per poi ucciderlo, cosa che fecero.

L’odio cresce in silenzio. È successo con Avshalom. È successo con i fratelli di Giuseppe. Prima della fine del capitolo, li vediamo complottare per uccidere Giuseppe, gettarlo in una fossa e venderlo come schiavo. È una storia terribile, che ha portato direttamente all’esilio e alla schiavitù degli Israeliti in Egitto.

Il Talmud (Brachot 26b) usa l’espressione “ein sichah ela tefillah”, che letteralmente significa “La conversazione è una forma di preghiera”, perché aprendoci all’altro umano ci prepariamo all’atto di aprirci con l’altro divino, che è ciò che è la preghiera: una conversazione con Dio.

La conversazione non risolve di per sé il conflitto. Due persone che sono aperte l’una verso l’altra, possono ancora avere desideri contrastanti o pretese contrastanti. Potrebbero semplicemente non piacersi. Non esiste una legge di armonia predeterminata nel dominio umano. Ma conversare significa riconoscere l’umanità dell’altro. Nella migliore delle ipotesi ci consente di impegnarci nell’inversione di ruolo, vedendo il mondo dal punto di vista dell’altro. Pensate a quanti conflitti reali e insolubili, sia in ambito personale che politico, potrebbero essere trasformati se potessimo farlo.

Alla fine Josef e i suoi fratelli dovettero vivere un vero e proprio trauma prima di essere in grado di riconoscere l’umanità dell’altro, e gran parte del resto della loro storia – il racconto più lungo della Torà– riguarda proprio questo.

L’ebraismo parla del Dio che non può essere visto, che può essere solo ascoltato; del Dio che ha creato l’universo con le parole e il cui primo atto di gentilezza verso il primo essere umano è stato quello di insegnargli a usare le parole. Gli ebrei, anche quelli più laici, si sono spesso preoccupati del linguaggio. Wittgenstein (filosofo 1889-1951) aveva capito che la filosofia ha a che fare con il linguaggio.

Levi Strauss (antropologo 1908-2009) vedeva le culture come forme di linguaggio. Noam Chomsky (filosofo e linguista 1928-…) e Steven Pinker (scienziato 1954-…) sono stati i primi a studiare l’istinto linguistico. George Steiner (scrittore e saggista 1929-2020) ha scritto sulla traduzione e sui limiti del linguaggio.

I Saggi sono stati eloquenti nel parlare dei pericoli del lashon hara, “discorso malvagio”, il potere del linguaggio di rompere le relazioni e distruggere la fiducia e la buona volontà. Ma c’è anche il silenzio malvagio, oltre al discorso malvagio. Non è un caso che proprio all’inizio del più fatidico racconto di rivalità tra fratelli in Bereshit, si alluda al ruolo – in particolare al fallimento – del linguaggio, in un modo che sfugge a quasi tutte le traduzioni. I fratelli di Giuseppe avrebbero potuto “parlargli di pace” se fossero stati aperti, schietti e disposti a comunicare. La parola si è interrotta proprio nel momento in cui era più necessaria.

Le parole creano, le parole rivelano, le parole comandano, le parole redimono. L’ebraismo è una religione di parole sacre. Perché le parole sono lo stretto ponte che attraversa l’abisso tra anima e anima, tra due esseri umani e tra l’umanità e Dio.

Le parole creano, le parole rivelano, le parole comandano, le parole redimono. L’ebraismo è una religione di parole sacre. Perché le parole sono lo stretto ponte che attraversa l’abisso tra anima e anima, tra due esseri umani e tra l’umanità e Dio.

Il linguaggio è la redenzione della solitudine e la riparazione dei rapporti interrotti. Per quanto sia doloroso parlare del nostro dolore, è più pericoloso non farlo. Giuseppe e i suoi fratelli avrebbero potuto riconciliarsi fin dall’inizio della loro vita, risparmiando così a se stessi, al padre e ai loro discendenti un grande dolore. Rivelare il dolore è il primo passo per guarirlo. Parlare è un percorso di pace.

Di Rabbi Jonathan Sacks zzl