Parasha

Parashat Vayerà. Un genitore è colui che sa di non possedere suo figlio

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
È il passaggio più difficile di tutti, quello che sembra sfidare la comprensione. Abramo e Sara aspettano da anni un figlio. Dio ha loro promesso più volte che avranno una discendenza numerosa, tanta quanto le stelle del cielo, la polvere della terra, i granelli di sabbia delle rive del mare. Loro l’attendono. Tuttavia nessun bambino arriva.

Sara, in profonda disperazione, suggerisce ad Abramo di avere un figlio dalla sua serva Agar. Lui accetta l’idea. Nasce Ismaele. Eppure Dio disse ad Abramo: ma stabilirò il Mio patto con Isacco che ti partorirà Sarà l’anno venturo. Ormai Sara era vecchia, in post-menopausa, incapace di avere un figlio con mezzi naturali. Gli angeli vennero in visita ad Abramo e gli promisero di nuovo un bambino. Sara rise. Ma un anno dopo nacque Isacco. La gioia di Sara è quasi straziante, disse: “Dio mi ha dato di che ridere; chi saprà il mio caso riderà”. E aggiunse: “Chi avrebbe detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato dei figli! Che gli avrei partorito un figlio nella sua vecchiaia!”. (Genesi 21:6-7)

Poi arrivano le fatidiche parole: “Prendi tuo figlio, il tuo unico, quello che ami – Isacco – e và nel paese di Moriah. Lì offrilo in olocausto su uno dei monti, quello che io ti indicherò». (Genesi 22:2) Il resto della storia è familiare. Abramo prende Isacco. Insieme viaggiano per tre giorni verso la montagna. Al suo arrivo costruisce un altare, raccoglie la legna, lega suo figlio e solleva il coltello. Nel momento cruciale: L’angelo del Signore lo chiamò dal cielo: “Abramo! Abramo!” Egli rispose: “Eccomi”. “Non alzare la mano contro il ragazzo; non fargli nulla, perché ora so che temi Dio: perché non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico figlio». (Genesi 22:11-12)

Il processo è finito. È il culmine della vita di Abramo, la prova suprema della fede, un momento chiave nella memoria e nell’autodefinizione ebraica. Ma è profondamente preoccupante. Perché Dio ha quasi portato via ciò che gli aveva dato? Perché sottopose questi due anziani genitori – Abramo e Sara – ad una prova così spaventosa? Perché Abramo, che in precedenza aveva sfidato Dio sul destino di Sodoma, dicendo: “Il giudice di tutta la terra non agirà giustamente?”, non protesta contro questo atto crudele verso un bambino innocente?

L’interpretazione standard, data da tutti i commentatori – classici e moderni – è che Abramo dimostrò il suo amore totale per Dio essendo disposto a sacrificare la cosa più preziosa della sua vita, il figlio che aveva aspettato per tanti anni.

Il teologo cristiano Soren Kierkegaard (1813-1855) scrisse un libro interessante sull’argomento, “Timore e tremore”, in cui coniò idee come la “sospensione teleologica dell’etico”– l’amore di Dio può portarci a fare cose che altrimenti sarebbero considerate moralmente sbagliate – e “fede nell’assurdo” – Abramo confidava in Dio affinché rendesse possibile l’impossibile. Credeva che avrebbe perso Isacco, ma lo avrebbe avuto ancora idealmente nel cuore e nella mente. Per Kierkegaard la fede trascende la ragione.

Il rabbino Joseph Soloveitchik commentò la legatura di Isacco, come una dimostrazione che non dobbiamo aspettarci di essere sempre vittoriosi. A volte dobbiamo sperimentare la sconfitta. “Dio dice all’uomo di ritirarsi da ciò che desidera di più.” Tutte queste interpretazioni sono sicuramente corrette. Fanno parte della nostra tradizione. Voglio, tuttavia, offrire una lettura completamente diversa, per una ragione. In tutto il Tanach, il peccato più grave è il sacrificio dei bambini. La Torà e i profeti lo considerano costantemente con orrore. È quello che fanno i pagani. Questo è Geremia sull’argomento: “Hanno costruito alture al Baal per bruciare i loro figli nel fuoco come offerte al Baal – qualcosa che non ho comandato o menzionato, né mi è passato per la mente.” (Geremia 19:5)

Il profeta Michea: “Offrirò il mio primogenito per la mia trasgressione, il frutto del mio corpo per il peccato della mia anima?” (Michea 6:7)

È ciò che fa Mesha, il re di Moab, per farsi concedere dagli dei la vittoria sugli Israeliti:
visto che la guerra era insostenibile per lui, prese con sé settecento uomini che maneggiavano la spada per aprirsi un passaggio verso il re di Edom, ma non ci riuscì. Allora prese il figlio primogenito, che doveva regnare al suo posto, e l’offrì in olocausto sulle mura della città. Si scatenò una grande ira contro gli Israeliti, che si allontanarono da lui e tornarono nella loro regione”. (2 Re 3:26-27)

Come può la Torà considerare come risultato supremo di Abramo il fatto di essere disposto a fare ciò che fanno i peggiori idolatri? Il fatto che Abramo fosse disposto a sacrificare suo figlio sembrerebbe renderlo – in termini del Tanach considerato nel suo insieme – non migliore degli adoratori di Baal o del Molech o del re pagano di Moab. Questa non può essere l’unica interpretazione possibile. Esiste un modo alternativo di considerare il processo. Per fare ciò dobbiamo considerare un tema dominante della Torà nel suo insieme raccogliendo delle prove.

Primo principio: Dio possiede la terra d’Israele. Per questo motivo nell’anno giubilare può ordinare la restituzione dei beni ai proprietari originari: “La terra non sarà venduta per sempre, perché la terra è Mia. Per Me siete semplicemente forestieri e residenti provvisori presso di me”. (Levitico 25:23)

Secondo principio: Dio possiede i figli d’Israele, poiché li ha riscattati dalla schiavitù. Questo intendevano gli Israeliti quando cantavano presso il Mar Rosso: “Finché il tuo popolo abbia passato il Giordano, Signore, finché il popolo che tu hai acquistato [am zu kanita] passò”. (Esodo 15:16) Pertanto non possono essere trasformati in schiavi permanenti: “Perché gli Israeliti sono i Miei servi, che ho fatto uscire dall’Egitto: non possono essere venduti come si vendono gli schiavi”. (Levitico 25:42)

Terzo principio: Dio è il proprietario ultimo di tutto ciò che esiste. Ecco perché dobbiamo fare una benedizione su tutto ciò che ci piace: Rabbi Yehuda disse nel nome di Samuele: Godere di qualcosa di questo mondo senza prima recitare una benedizione è come fare un uso personale delle cose consacrate al cielo, poiché dice: “La terra è del Signore e quanto essa contiene”. Rav Levi contrappone due testi. È scritto: “La terra è del Signore e tutto ciò che la contiene”, ed è anche scritto: “I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli degli uomini!” Non c’è contraddizione: il primo caso avviene prima che sia stata pronunciata la benedizione, nell’altro dopo che è stata pronunciata la benedizione. (Brachot 35a) Tutte le cose appartengono a Dio e dobbiamo riconoscerlo prima di utilizzare qualsiasi cosa. Ecco cos’è una benedizione: riconoscere che tutto ciò di cui godiamo viene da Dio.

Questa è la base giurisprudenziale di tutta la legge ebraica. Dio governa per diritto, non per forza. Dio ha creato l’universo; quindi Dio è il proprietario ultimo dell’universo. Il termine legale per questo è “esproprio”. Pertanto, Dio ha il diritto di prescrivere le condizioni dalle quali possiamo trarre beneficio dall’universo. È per stabilire questo fatto giuridico – non per parlarci della fisica e della cosmologia del Big Bang – che la Torà inizia con la storia della Creazione.

Ciò ha una profondità e una risonanza speciale per il popolo ebraico poiché nel loro caso Dio non è solo – come lo è per tutta l’umanità – Creatore e Sostenitore dell’universo. Egli è anche, per gli ebrei, il Dio della storia, che li ha riscattati dalla schiavitù e ha donato loro una terra che in origine apparteneva a qualcun altro, le “sette nazioni”. Dio è sovrano dell’universo, ma in un senso speciale è l’unico Re definitivo di Israele e l’unica fonte delle sue leggi. Questo è il significato del libro dell’Esodo. Le narrazioni chiave della Torà sono lì per insegnarci che Dio è il proprietario ultimo di tutto.

Nel mondo antico, fino all’Impero Romano compreso, i bambini erano considerati proprietà legale dei loro genitori. Non avevano diritti. Non erano una personalità giuridiche in sé. Secondo il principio romano della patria potestas un padre poteva fare tutto ciò che voleva con suo figlio, compreso metterlo a morte. L’infanticidio era ben noto nell’antichità (e infatti è stato difeso anche ai nostri giorni dal filosofo di Harvard Peter Singer, nel caso di bambini gravemente handicappati). Così, ad esempio, inizia la storia di Edipo, con il padre Laio che lo lasciò morire.

È questo principio che sta alla base dell’intera pratica del sacrificio infantile, diffusa in tutto il mondo pagano. La Torà è inorridita dal sacrificio dei bambini, che considera il peggiore di tutti i peccati. Cerca quindi di stabilire, in questo caso, ciò che stabilisce nel caso dell’universo nel suo insieme, della terra d’Israele e del popolo d’Israele. Non possediamo i nostri figli. Dio li crea. Noi siamo semplicemente i loro guardiani per conto Suo.

Solo l’evento più drammatico poteva affermare un’idea così rivoluzionaria e senza precedenti – addirittura incomprensibile – nel mondo antico. Questo è ciò di cui parla la storia della legatura di Isacco. Egli non appartiene né ad Abramo né a Sara. Isacco appartiene a Dio. Tutti i bambini appartengono a Dio. I genitori non possiedono i propri figli. Il rapporto tra genitore e figlio è esclusivamente di tutela. Dio non vuole che Abramo sacrifichi suo figlio. Dio vuole che rinunci alla proprietà di suo figlio. Questo è ciò che intende l’angelo quando chiama Abramo, dicendogli di fermarsi: “Non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico”.

La legatura di Isacco è una polemica contro e un rifiuto del principio della patria potestas, l’idea universale in tutte le culture pagane, secondo cui i bambini sono proprietà dei loro genitori. Vista in questa luce, la legatura di Isacco è ora coerente con gli altri racconti fondamentali della Torà, vale a dire la creazione dell’universo e la liberazione degli israeliti dalla schiavitù in Egitto. Anche il resto della narrazione ha senso. Dio dovette mostrare ad Abramo e Sara che il loro figlio non era naturalmente loro, perché la sua nascita non era affatto naturale. È avvenuta dopo che Sara non poteva più concepire.

La storia del primo bambino ebreo stabilisce un principio che vale per tutti i bambini ebrei. Dio crea uno spazio legale tra genitore e figlio, perché solo quando quello spazio esiste i bambini hanno la possibilità di usarlo per crescere come individui indipendenti. La Torà cerca infine di abolire tutti i rapporti di dominio e sottomissione. Questo è il motivo per cui non ama la schiavitù e la rende, all’interno di Israele, una condizione temporanea piuttosto che un destino permanente. Ecco perché cerca di proteggere i bambini dai genitori prepotenti o peggio.

Avraham, abbiamo sostenuto nello studio della scorsa settimana, è stato scelto per essere il modello – per sempre – di cosa significhi essere un genitore. Ora sappiamo che la legatura di Isacco è il coronamento di quella storia. Un genitore è colui che sa di non possedere il proprio figlio.

Di Rabbi Jonathan Sacks zzl