Parashat Terumà. La lezione del Tabernacolo: solo diventando costruttori ci trasformiamo da sudditi a cittadini

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Non appena leggiamo le righe iniziali della parashà di Terumà, cominciamo a passare dall’intenso dramma dell’Esodo, con i suoi segni e prodigi e gli eventi epici, alla lunga e dettagliata narrazione di come gli Israeliti costruirono il Tabernacolo, il santuario mobile che portarono con loro attraverso il deserto.

Si tratta di una parte della Torà che chiede a gran voce una spiegazione. La prima cosa che colpisce è la lunghezza del racconto: un terzo del libro di Shemot, cinque Parashot – Terumà, Tetzavè, metà di Ki Tissa, Vayakhel e Pekudei – interrotte solo dalla storia del Vitello d’oro.

La cosa diventa ancora più sconcertante se la confrontiamo con un altro atto di creazione, ovvero la creazione dell’universo da parte di Dio. Quella storia è raccontata con la massima brevità: appena trentaquattro versetti. Perché impiegare quindici volte tanto per raccontare la costruzione del Santuario?

La domanda diventa ancora più difficile se ricordiamo che il Mishkan non era un elemento permanente della vita spirituale dei figli di Israele. Era stato progettato specificamente per essere portato con loro durante il viaggio attraverso il deserto. Più tardi, ai tempi di Salomone, sarebbe stato sostituito dal Tempio di Gerusalemme. Quale messaggio duraturo dovremmo imparare dalla costruzione di un santuario itinerante che non era nemmeno stato progettato per durare?

Ancora più sconcertante è il fatto che la storia faccia parte del libro di Shemot. Shemot parla della nascita di una nazione. Quindi l’Egitto, la schiavitù, il faraone, le dieci piaghe, l’esodo, il viaggio attraverso il mare e l’alleanza sul Monte Sinai. Tutte queste cose sarebbero entrate a far parte della memoria collettiva del popolo. Ma il Santuario, dove venivano offerti i sacrifici, appartiene sicuramente a Vayikra, altrimenti noto come Torat Kohanim, Levitico, il libro dei gesti sacerdotali. Non sembra avere alcun legame con l’Esodo.

La risposta, a mio avviso, è profonda.
Il passaggio da Bereshit a Shemot, dalla Genesi all’Esodo, riguarda il cambiamento dalla famiglia alla nazione. Quando gli Israeliti entrarono in Egitto, erano un’unica famiglia allargata. Quando se ne andarono erano diventati un popolo numeroso, diviso in dodici tribù più un insieme amorfo di compagni di viaggio noti come erev rav, la “moltitudine mista”.

Ciò che li univa era il destino. Erano il popolo di cui gli Egiziani diffidavano e che avevano ridotto in schiavitù. Gli israeliti avevano un nemico comune. Inoltre, avevano il ricordo dei patriarchi e del loro Dio. Condividevano un passato. Ciò che si sarebbe stato difficile, quasi impossibile, fu convincerli a condividere la responsabilità per il futuro.

Tutto ciò che leggiamo in Shemot ci dice che, come spesso accade tra i popoli privati da tempo della libertà, erano passivi e si lamentavano facilmente. Le due cose vanno spesso insieme. Si aspettavano che qualcun altro, Mosè o Dio stesso, fornisse loro cibo e acqua, li conducesse al sicuro e li portasse nella Terra Promessa.

Ad ogni contrattempo, si lamentavano. Si lamentarono quando il primo intervento di Mosè fallì: “Che il Signore vi guardi e vi giudichi! Ci hai reso odiosi al Faraone e ai suoi funzionari e hai messo loro in mano una spada per ucciderci”. (Esodo 5:21)

Al Mar Rosso si lamentarono di nuovo. Dissero a Mosè: “È perché non c’erano tombe in Egitto che ci hai portato nel deserto a morire? Che cosa ci hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti abbiamo forse detto in Egitto: “Lasciaci in pace, lasciaci servire gli Egiziani”? Sarebbe stato meglio per noi servire gli Egiziani che morire nel deserto!”. (Esodo 14:11-12)

Dopo la divisione del Mar Rosso, la Torà testimonia che: “Quando gli Israeliti videro la potente mano del Signore esibita contro gli Egiziani, il popolo temette il Signore e credette in Lui e in Mosè suo servo”. (Esido 14:31) Ma dopo soli tre giorni si lamentarono di nuovo. Non c’era acqua. Poi l’acqua giunse, ma era amara.
Poi non ci fu cibo. Gli Israeliti dissero: “Se solo fossimo morti per mano del Signore in Egitto! Lì ci siamo seduti intorno a pentole di carne e abbiamo mangiato tutto il cibo che volevamo, ma tu ci hai portato in questo deserto per far morire di fame tutta questa assemblea”. (Esodo 16:3) Presto Mosè stesso dirà: “Cosa devo fare con questo popolo? Sono quasi pronti a lapidarmi”. (Esodo 17:4)

Ormai Dio aveva compiuto segni e prodigi a favore del popolo, lo fece uscire dall’Egitto, divise il mare per lui, gli diede l’acqua dalla roccia e la manna dal cielo, eppure non si erano ancora unito come nazione. Erano un gruppo di individui, non disposti o incapaci di assumersi responsabilità, di agire collettivamente. La loro prima reazione era sempre quella di lamentarsi.

Poi Dio compì il più grande atto della storia. Apparve in una rivelazione sul Monte Sinai, l’unica volta nella storia in cui Dio si manifestò a un intero popolo, e il popolo tremò. Non c’era mai stato niente di simile prima e non ci sarà mai più.

Quanto tempo durò? Appena quaranta giorni. Poi i figli di Israele costruirono un vitello d’oro. Se i miracoli, la divisione del mare e la Rivelazione sul Monte Sinai non riuscirono a trasformare il popolo, cosa lo avrebbe potuto fare? Non ci furono miracoli più grandi di questi.

È allora che Dio fece la cosa più inaspettata. Disse a Mosè: parla al popolo e dì loro di contribuire, di dare qualcosa di proprio, che sia oro o argento o bronzo, che sia lana o pelle di animale, che sia olio o incenso, che sia la loro abilità o il loro tempo, e di far costruire insieme qualcosa – una casa simbolica per la Mia Presenza, un Tabernacolo. Non è necessario che sia grande, grandioso o permanente. Fate in modo che facciano qualcosa, che diventino costruttori. Fate in modo che diano.

Mosè lo fece. E il popolo rispose alla sua richiesta, lo fece così generosamente che a Mosè venne detto: “Il popolo sta portando più del necessario per fare il lavoro che il Signore ha ordinato di eseguire” (Esodo 36,5), e Mosè chiese loro di smettere di offrire.

Per tutto il tempo della costruzione del Tabernacolo, non ci furono lamentele, ribellioni o dissensi. Ciò che tutti i segni e i prodigi non riuscirono a fare, la costruzione del Tabernacolo riuscì a farlo. Trasformò il popolo. Lo trasformò in un gruppo coeso. Ha dato loro un senso di responsabilità e di identità.

Vista in questo contesto, la storia del Tabernacolo è stata l’elemento essenziale per la nascita di una nazione. Non c’è da stupirsi che sia un lungo racconto; non c’è da stupirsi che appartenga al libro dell’Esodo; e non c’è nulla di effimero in essa.

Il Tabernacolo non è durato per sempre, ma la lezione che ha insegnato sì. Non è ciò che Dio fa per noi che ci trasforma, ma ciò che noi facciamo per Dio. Una società libera è simboleggiata al meglio dal Tabernacolo. È la casa che costruiamo insieme. Solo diventando costruttori ci trasformiamo da sudditi a cittadini. Dobbiamo guadagnarci la libertà con ciò che diamo. Non può esserci data come un dono non meritato. È ciò che facciamo, non ciò che ci viene fatto, a renderci liberi. È una lezione valida oggi come allora.

Di Rabbi Jonathan Sacks zzl