Parashat Behar Sinai-Bekhukotai. Essere ebrei significa fare parte di una grande famiglia

Appunti di Parashà a cura di Lida Calò
Ho sostenuto nel mio commento alla parashà di Kedoshim che il giudaismo è più di un’etnia. È una chiamata alla santità. In un certo senso, tuttavia, c’è un’importante dimensione etnica nell’ebraismo.

La migliore dimostrazione di questa mia affermazione fu uno scherzo in una campagna pubblicitaria Newyorkese del 1980. In tutta la città c’erano manifesti giganti con lo slogan “Hai un amico alla Chase Manhattan Bank”. Sotto dei poster, un israeliano aveva scarabocchiato le parole: “Ma nella Bank Leumi hai una mishpacha”. Gli ebrei sono, e sono consapevoli di essere, un’unica famiglia allargata.

Ciò è particolarmente evidente nella parashà di questa settimana. Ripetutamente leggiamo della legislazione sociale formulata nel linguaggio della famiglia: Quando compri o vendi al tuo vicino, nessuno faccia torto a suo fratello. (Levitico 25:14)

Se tuo fratello si impoverisce e vende parte della sua proprietà, un suo parente stretto potrà riscattare ciò che ha venduto. (Levitico 25:25)

Se tuo fratello è povero e ti è debitore, devi sostenerlo; deve vivere con te come un residente straniero. Non prendere interessi né profitto da lui, ma temi il tuo Dio e lascia che tuo fratello viva con te. (Levitico 25:35-36)

Se tuo fratello si impoverisce e ti viene venduto, non trattarlo come uno schiavo. (Levitico 25:39)

“Tuo fratello” in questi versetti non è inteso letteralmente. A volte significa “tuo parente”, ma soprattutto significa “tuo compagno ebreo”. Questo è un modo distintivo di pensare alla società e ai nostri obblighi verso gli altri. Gli ebrei non sono solo cittadini della stessa nazione o aderenti alla stessa fede. Siamo membri della stessa famiglia allargata. Siamo – biologicamente o elettivamente – figli di Abramo e Sara. Per la maggior parte, condividiamo la stessa storia. Nelle festività riviviamo gli stessi ricordi. Siamo stati forgiati nello stesso crogiolo di sofferenza. Siamo più che amici. Siamo mishpacha, famiglia.

Il concetto di famiglia è assolutamente fondamentale per l’ebraismo. Considera il libro della Genesi, il punto di partenza della Torà. Non si tratta principalmente di teologia, dottrina, dogma. Non è una polemica contro l’idolatria. Si tratta di famiglie: mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e sorelle.

Nei momenti chiave della Torà, Dio stesso definisce la Sua relazione con gli Israeliti in termini di famiglia. Disse a Mosè di dire al Faraone nel suo nome: “Figlio mio, mio ​​primogenito, Israele” (Esodo 4:22). Quando Mosè vuole spiegare agli Israeliti perché hanno il dovere di essere santi, risponde: “Voi siete figli del Signore, vostro Dio” (Deuteronomio 14:1). Se Dio è nostro genitore, allora siamo tutti fratelli e sorelle. Siamo collegati da legami che vanno al cuore stesso di ciò che siamo.

I profeti continuarono la metafora. C’è un bel passaggio in Osea in cui il profeta descrive Dio come un genitore che insegna a un bambino a muovere i suoi primi vacillanti passi: Io che insegnai a Efraim a camminare, tenendolo per mano… ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.». (Osea 11:1-4).

La stessa immagine continua nel giudaismo rabbinico. In una delle frasi di preghiera più famose, Rabbi Akiva usò le parole Avinu Malkeinu, “Padre nostro, nostro re”. Questa è un’espressione precisa e deliberata. Dio è davvero il nostro sovrano, il nostro legislatore e il nostro giudice, ma prima di essere una di queste cose Egli è il nostro genitore e noi siamo i Suoi figli. Ecco perché crediamo che la compassione divina prevarrà sempre sulla rigida giustizia.

Questo concetto degli ebrei come famiglia allargata è espresso con forza nelle leggi della carità di Maimonide. L’intero popolo ebraico e tutti coloro che si attaccano a lui sono come fratelli, come afferma [Deuteronomio 14:1]: “Voi siete figli del Signore vostro Dio”. E se un fratello non avrà pietà di un fratello, chi avrà pietà di loro? A chi alzano gli occhi i poveri d’Israele? Ai pagani che li odiano e li inseguono? I loro occhi sono rivolti solo ai loro fratelli.

Questo senso di parentela, fraternità e legame familiare è al centro dell’idea di Kol Yisrael arevin zeh bazeh, “Tutti gli ebrei sono responsabili gli uni degli altri”. O come disse il rabbino Shimon bar Yohai: “Quando un ebreo viene ferito, tutti gli ebrei sentono il dolore”.

Perché l’ebraismo è costruito su questo modello di famiglia? In parte per dirci che Dio non ha scelto un’élite di giusti o una setta di persone affini. Ha scelto una famiglia – i discendenti di Abramo e Sara – allargata nel tempo. La famiglia è il più potente veicolo di continuità e il tipo di cambiamenti che gli ebrei avrebbero dovuto apportare al mondo, non potevano essere raggiunti in una sola generazione. Di qui l’importanza della famiglia come luogo di educazione (“Insegnerai ripetutamente queste cose ai tuoi figli…”) e di trasmissione della storia, soprattutto a Pesach attraverso il servizio del Seder.

Un altro motivo è che il sentimento familiare è il legame morale più primordiale e potente. Lo scienziato J. B. S. Haldane (1892-1964) disse notoriamente, quando gli fu chiesto se si sarebbe gettato in un fiume e avrebbe rischiato la vita per salvare suo fratello che stava annegando: “No, ma lo farei per salvare due fratelli o otto cugini”. Il punto che stava sottolineando era che condividiamo il 50 per cento dei nostri geni con i nostri fratelli e un ottavo con i nostri cugini. Assumersi il rischio di salvarli è un modo per garantire che i nostri geni vengano trasmessi alla generazione successiva. Questo principio, noto come “selezione di parentela”, è la forma più basilare dell’altruismo umano. È lì che nasce il senso morale.

Questa è un’intuizione chiave, non solo della biologia ma anche della teoria politica. Edmund Burke (politico filosofo scrittore britannico 1729-1797) disse notoriamente che “Essere attaccati alla suddivisione, amare il piccolo plotone a cui apparteniamo nella società, è il primo principio (il germe per così dire) degli affetti pubblici. È il primo anello della serie attraverso il quale procediamo verso l’amore per il nostro paese e per l’umanità.”

Le famiglie forti sono essenziali per le società libere. Dove le famiglie sono forti, esiste un senso di altruismo che può essere esteso all’esterno, dalla famiglia agli amici, ai vicini, alla comunità e da lì alla nazione nel suo insieme.

Era il senso della famiglia che teneva gli ebrei legati in una rete di obblighi reciproci nonostante fossero sparsi per il mondo. Esiste ancora? A volte le divisioni nel mondo ebraico sono così profonde e gli insulti scagliati da un gruppo contro l’altro sono così brutali che si potrebbe quasi essere persuasi che non sia così. Negli anni Cinquanta Martin Buber espresse la convinzione che il popolo ebraico in senso tradizionale non esistesse più. Knesset Yisrael – il popolo dell’alleanza come un’unica entità davanti a Dio – non c’era più. Le divisioni tra ebrei, religiosi e laici, ortodossi e non ortodossi, sionisti e non sionisti, avevano, pensava, frammentato il popolo senza speranza di riparazione.

Eppure questa conclusione è prematura, proprio per il motivo che rende la famiglia un legame così elementare. Discuti con il tuo amico e domani potrebbe non essere più tuo amico, ma discuti con tuo fratello e domani sarà ancora tuo fratello. Il libro della Genesi è pieno di rivalità tra fratelli, ma non finiscono tutte allo stesso modo. La storia di Caino e Abele si conclude con la morte di Abele. La storia di Isacco e Ismaele termina con il loro stare insieme presso la tomba di Abramo. La storia di Esaù e Giacobbe raggiunge il culmine quando, dopo una lunga separazione, si incontrano, si abbracciano e si separano. La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli inizia con l’animosità, ma finisce con il perdono e la riconciliazione. Anche le famiglie più disfunzionali alla fine possono riunirsi.

Il popolo ebraico rimane una famiglia, spesso divisa, sempre polemica, ma comunque legata da un comune vincolo di destino. Come ci ricorda la nostra parashà, quella persona che è caduta è nostro fratello o nostra sorella, e la nostra deve essere la mano che la aiuta a rialzarsi.

Di rav Jonathan Sacks zzl