Festival / Pesach, un paradigma di liberazione che vale per tutti

di Ilaria Myr

1867_Edward_Poynter_-_Israel_in_EgyptUn evento dalla portata universale, sopra ogni spazio e ogni tempo; un lungo, complesso e non necessariamente perfetto processo di liberazione, che riguarda un popolo – gli ebrei – ma che, simbolicamente, riguarda l’intera umanità. Pesach è questo, nelle parole del celebre psicoanalista Luigi Zoja, relatore al Festival Jewish and the City, sul tema peculiare Da quale schiavitù dobbiamo liberarci?
Dal punto di vista psicanalitico, in che modo la storia di Pesach e dell’uscita dall’Egitto può essere presa ad emblema della conquista della libertà?
Pensando a Pesach io penso a un impervio, imperfetto, mai lineare processo di liberazione: che riguarda tutto un popolo e addirittura un rapporto fra popoli, e anche la relazione tra popolo e autorità. Riguarda gli ebrei, che hanno simboli, regole e storia ben specifici, ma simbolicamente, psicologicamente, tutto questo ha una portata universale. Tutti gli uomini passano la vita lottando per liberarsi da qualche schiavitù, anche se non ne sono necessariamente coscienti, e a elaborare il rapporto tra le loro azioni e le loro “autorità interiori”. È insomma una metafora di ogni esistenza umana, un paradigma, un esempio storico-religioso che si adatta benissimo alla vita di ciascuno di noi. Proprio chi conduce gli altri, Mosé, non raggiunge la libertà.
Simbolicamente parlando, tanti oggi tentano nuove vie per uscire dalla mancanza di senso di una vita post-moderna, senza valori né scopi, ma a volte trovano una certa serenità solo parecchio più tardi, quando sembrava loro di aver ormai abbandonato quella autorità interiore, quel “piccolo Mosé”, che si portavano dentro.
Molti pazienti che hanno fatto una lunga analisi in realtà si accorgono di averne tratto benefici solo anni e anni dopo averla terminata. Ed è normale, proprio perché gli ostacoli interiori, a differenza da quelli esterni, si riaffacciano e prendono possesso di nuovo di noi con grande rapidità. Bisognerebbe dunque fare proprio non un equilibrio interiore permanente – il che è una pia illusione -, ma un atteggiamento permanente con cui affrontarli. In una recente intervista, lo studioso e filosofo francese George Steiner ne dà un esempio bellissimo e “secolare”. Il padre di Steiner coltivava, ugualmente, un senso religioso dell’insegnamento ai propri figli e nel contempo un rispetto altrettanto profondo delle realtà storiche. Aveva portato la famiglia in Francia, ma negli anni Trenta vide il razzismo montare anche nella terra dei Lumi. Un giorno condusse il piccolo George alla finestra e gli indicò una sfilata fascista: “Guarda – gli disse con la massima calma – quello che vedi viene chiamato storia. Non devi mai, mai, averne paura”. Era convinto che la cosa peggiore fosse cadere nel panico, perché toglie libertà interiore. Sapeva – dice il figlio dandogli ragione, tre quarti di secolo dopo – che è molto meglio considerare gli eventi storici come interessanti: provare sempre curiosità. E anche grazie a questo che lasciò la Francia per tempo, ben prima dell’arrivo dei nazisti.
“Da quale schiavitù dobbiamo liberarci”? Dal punto di vista dello psicoanalista, quali sono le criticità di questo percorso nell’era contemporanea?
È molto semplice. Evocando il concetto di libertà, si tende a pensare alla libertà esteriore e esterna. Ma questo modus pensandi era abbastanza scontato in un’epoca pre-psicologica. Da quando esiste la psicoanalisi dovremmo riformulare l’Etica tenendo conto anche della dimensione interiore, del cosiddetto Inconscio. Non bastano le buone intenzioni coscienti: anche i peggiori tiranni le hanno, raccontando a se stessi che le peggiori mostruosità che commettono sono solo incidenti di percorso, necessari per arrivare alla meta. Per questo dobbiamo parlare di libertà esterne ma anche, immediatamente, di libertà interiore. Tutto questo è magistralmente riassunto da Iosif Brodskij: “Noi siamo involontarie personificazioni dell’idea sconsolante che ogni uomo liberato non è un uomo libero, che la liberazione è soltanto il mezzo per arrivare alla libertà e non ne è sinonimo”. Insomma, la liberazione (politica, economica) è una fondamentale premessa, ma è ben lontana dall’esser sufficiente per proclamarci liberi: lungi dal toglierci una responsabilità, al contrario, ce la consegna. E noi tutti, spesso, invece di usarla, invece di valutare e giudicare a fondo, ripartendo da zero in ogni nuova situazione, ci consegniamo ai pregiudizi. Perché tutto questo è, nelle parole di Brodskij, “sconsolante”?
Perché per fortuna la liberazione esterna, per quanto incompleta, possiede una sua stabilità. In Italia il fascismo è stato sconfitto: viviamo da allora in un (per quanto imperfetto) stato di diritto. Invece la libertà interiore ben difficilmente diviene permanente, definitiva. Lo studente non si gode la vita per la paura di non farcela agli esami. Liberatosi da quella paura, ricade presto nell’angoscia di non trovare lavoro, poi di non trovare il giusto partner per la vita, poi di poter avere figli e così via fino alla terza età, in cui siamo spaventati dalla decadenza fisica, dalla necessità di accettarla, dalla inevitabilità della morte.
La paura, soprattutto ai nostri giorni, può prendere forme incredibili. La vita media si allunga, i novanta o i cento anni sono a portata di mano: eppure ho conosciuto persone che già a vent’anni vivevano angosciate dall’idea della morte. La vita interiore è la cosa meno programmabile. E il vero nemico della libertà è la paura, vera prigione dell’Io.