Un Pesach di libertà, tra incertezza e fiducia

di Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano

È l’invito a “farsi sottili”, a non “lievitare”, a ristabilire  il senso del limite. Matzà uMaror, appunto…Un insegnamento non solo per il popolo ebraico ma per ciascun essere umano. Ricordare l’amarezza dell’Egitto e poi la fine della schiavitù… Con la coscienza che non si è soli, che nei momenti più drammatici si è come un bambino in braccio alla madre

 

Gli ultimi due anni che abbiamo vissuto sono stati anni estremamente complicati. Abbiamo vissuto una pandemia che ha colpito l’umanità intera ma che soprattutto all’inizio ha colpito in particolare l’Italia. Questo ha portato sofferenze, lutti e un senso di insicurezza diffuso. Fino a due anni fa ci eravamo illusi di vivere in un mondo complessivamente sicuro, prevedibile, ci siamo dovuti rendere conto che non è così. Non siamo in grado di avere il controllo di ciò che succede ed è stato estremamente difficile abituarci a questa mancanza di controllo.

La situazione ha avuto poi una svolta drammatica negli ultimi tempi con l’invasione russa dell’Ucraina e la prospettiva di una guerra in Europa. Un avvenimento drammatico con terribili sofferenze umane, con la paura diffusa di un’evoluzione che rischia di essere catastrofica.
Ci prepariamo a vivere Pèsach che ovviamente dovremo vivere con gioia: è la festa della libertà, la festa che ricorda quello che è l’avvenimento fondamentale della storia ebraica, l’uscita dall’Egitto, il passaggio dalla schiavitù alla libertà che porterà 50 giorni dopo il dono della Torà sul Monte Sinai che completerà la liberazione del popolo ebraico suggellandola con una liberazione spirituale e trasformando gli ebrei da servi del faraone in servi di Dio. Pèsach contiene, tuttavia, anche un altro aspetto.
Una delle mitzvòt da mettere in pratica durante il Sèder di Pèsach è quella di mangiare il maròr.

Nel Sèder compiamo una serie di mitzvòt che ricordano la libertà: i quattro bicchieri di vino che ricordano le quattro espressioni di liberazione con cui viene annunciata l’uscita dall’Egitto, la matzà che ricorda il momento dell’uscita e la velocità con cui questo avvenimento straordinario è avvenuto. Ma abbiamo il dovere di ricordare qualcos’altro. Dobbiamo ricordare le amarezze che il popolo ebraico ha vissuto in Egitto, la schiavitù, il lavoro sfiancante, le persecuzioni: non usciamo d’obbligo dalla mitzvà del Sèder di Pèsach se non assaporiamo il maròr. Perché tutto questo? Rav Soloveitchik sostiene che in realtà in tutta la tradizione ebraica c’è un alternarsi di elementi positivi e negativi, di gioia e sofferenza; nelle preghiere quotidiane, per esempio, abbiamo la lode e il ringraziamento a Dio ma una parte della preghiera è dedicata a richieste (chiediamo la salute, il sostentamento ecc…). Perché facciamo queste richieste? Evidentemente riteniamo di non avere ciò che vogliamo o abbiamo timore di perderlo. Rav Soloveitchik afferma che, in realtà, questa condizione di incertezza è una condizione non solo del popolo ebraico ma di ogni essere umano.

In un passo del Kohelet l’uomo è paragonato ai pesci in una rete che temono il male che possa arrivare improvvisamente. È quell’“improvvisamente” l’elemento più preoccupante. Noi non siamo in grado di avere il controllo del futuro. Si tratta di una situazione certamente non piacevole. Rav Soloveitchik sostiene inoltre che questa condizione può generare anche effetti positivi. Uno degli effetti positivi è la anavà, l’umiltà. C’è una tendenza, molto presente negli esseri umani, alla superbia, a ritenersi il centro dell’universo. Se però abbiamo coscienza della nostra incapacità di controllare il futuro, la nostra superbia viene ridimensionata. L’umiltà è una virtù estremamente importante. Il profeta per eccellenza della storia ebraica e il protagonista dell’uscita dall’Egitto è Moshè Rabbenu che viene definito dalla Torà come una persona molto umile. Nella tradizione ebraica l’umiltà in realtà è un segno di grandezza. C’è un racconto chassidico in cui Rabbi Menachem Mendel di Kotz, rivolgendosi a un allievo che stava in disparte gli dice: sei troppo piccolo per essere così umile. Umiltà significa rendersi conto dei propri limiti ma avere la continua aspirazione a migliorarsi.
Il secondo elemento è la coscienza del pericolo che ha portato il popolo ebraico nella sua storia a dare un’enorme importanza alla salvaguardia della vita umana sia da un punto di vista fisico sia da quello spirituale.

Il terzo elemento è quello che rav Soloveitchik chiama la misericordia ebraica. La Torà prescrive una particolare attenzione per i deboli: lo schiavo, lo straniero, legando questa attenzione al ricordo della sofferenza patita che ha come conseguenza la conoscenza dell’animo delle persone più deboli.
Infine vi è un ultimo elemento, forse il più importante. Nel momento più drammatico della schiavitù egiziana il popolo ebraico si rivolge con una tefillà, anzi secondo Ramban con un urlo, a Dio e questa tefillà viene ascoltata ed è l’inizio del processo che porterà alla liberazione.
Uno degli insegnamenti fondamentali di Pèsach riguarda la emunà, la fede, la fiducia. La matzà è chiamata, nello Zohàr, pane della emunà. La emunà è la coscienza che non si è soli, che anche nei momenti più drammatici si è come un bambino in braccio alla madre. Questa consapevolezza ha accompagnato il popolo ebraico in tutta la sua storia ma è un insegnamento che può riguardare non solo noi ma l’intera umanità.