di Michael Soncin
«Anche quest’anno ci riuniamo per Yom HaZikaron. È un anno molto triste con centinaia di soldati caduti. Tutte le famiglie in Israele conoscono qualche soldato che è caduto in guerra». Con queste parole Sara Modena, assessore alla cultura della Comunità Ebraica di Milano, ha aperto, lunedì 28 aprile, l’evento online di Kesher in occasione di Yom HaZikaron, il “Giorno del Ricordo”, dove vengono onorate ogni anno in Israele le vittime nell’esercito e degli attentati.
«Siamo in guerra ormai da un anno e mezzo e tutt’ora i nostri militari e tutta la popolazione sta soffrendo. Dalla lotta del ghetto di Varsavia ai giorni odierni stiamo combattendo», ha ricordato Walker Meghnagi, presidente della Comunità Ebraica di Milano.
In un video messaggio Aryeh Moalem, capo del Dipartimento Famiglie – Memoria e Eredità, ha parlato del National Memorial Hall for Israel’s Fallen, il memoriale situato a Gerusalemme e completato nel 2017, che ricorda tutte le persone che hanno dato la loro vita per difendere lo Stato d’Israele. «Costruire questo posto era un sogno, tutti questi nomi insieme sono una forza immensa. Ogni volta che vengo qui mi emoziono, quando entri è difficile descrivere cosa si prova. Dal 7 ottobre si vede il gran numero di soldati che si sono aggiunti. Per visitarlo arrivano persone da tutto il mondo, la cosa più forte è sentire tutte le lingue e tutti gli accenti. Questi soldati hanno perso la vita per rendere Israele un posto più sicuro», ha detto Moalem.
«Yom Hazikaron è il giorno in cui il popolo d’Israele si unisce tutto insieme per ricordare. Non è un giorno per le famiglie che hanno perso qualcuno, per loro lo è sempre. Questo è il giorno in cui si ricorda a noi, al resto degli israeliani, che prezzo alto queste famiglie pagano». A dirlo è stato Yaakov Hagoel, presidente dell’Unione Sionista Mondiale. «Israele – sottolinea – è la casa di tutti quelli che vivevano e di tutti quelli che con l’aiuto di D-o vivranno»
“È una ferità che non guarisce, ma abbiamo scelto di vivere”
Successivamente ha preso la parola Efrat Shefa-Dor, direttrice della Regione Famiglie Tiberiade, che ha portato i ringraziamenti di Aryeh Moalem, che al momento si trovava al Kotel per prepararsi alla cerimonia. In diretta da Kiryat Shmona, Shefa-Dor ha raccontato che la città era sfollata fino a circa due mesi fa. Assieme a lei in collegamento, Jacqueline e Shlomo, una famiglia la cui casa è stata colpita e bruciata. Sono stati sfollati dall’inizio della guerra ed ora si trovano in una casa ristrutturata. Jacqueline e Shlomo hanno perso il loro nipote Amichai il 13 ottobre 2024, ucciso da un drone in una base del Golan.
Nella casa assieme a loro, durante l’evento online, si trova anche Ra’aya Belhassen, due famiglie unite da un unico legame. Ra’aya, che ha portato la sua testimonianza, è la moglie del Tenente Colonnello (Rav Seren) Eitan Belhassen, morto il 23 febbraio del 1999 in Libano mentre stava guidando le forze speciale dei paracadutisti. Aveva solamente 30 anni quanto ha lasciato la moglie Ra’aya e l’intera famiglia.
«Voglio spiegarvi perché ci troviamo qui in questa casa. Ethan ha un fratello che si è spostato con la figlia di Shlomo e Jacqueline la cui sorella è la madre di Amichai. Ethan e Amichai sono sepolti l’uno accanto all’altro. Noi siamo un’unica famiglia. Soffriamo per la perdita di Amichai come se fosse una ripetizione di tutto quello che abbiamo vissuto con la perdita di Ethan. E per questo che abbiamo voluto essere insieme durante questa cerimonia. Il nostro non è un legame casuale», racconta profondamente emozionata. «Sono passati 26 anni dalla morte di Ethan ed è ancora qualcosa che ci accompagna, che è doloroso, che fa male. È una ferita che non guarisce, ma insieme abbiamo scelto di vivere».
Una delle ultime persone a portare la sua testimonianza è stata Jacqueline, moglie di Shlomo, madre di 18 figli, 46 nipoti e 4 bisnipoti. «Vivo a Kiryat Shmona dal 1959. Non mi sono mai allontanata, non alla prima e non alla seconda guerra del Libano, ma questa volta ce ne siamo andati perché era veramente pericoloso. Era impossibile stare qui. Mio marito è rimasto per aiutare nell’esercito, come ha sempre fatto. È ancora adesso indossa l’uniforme, non lo vedrete mai in abiti civili».
Jacqueline ha cresciuto praticamente tutti i suoi figli senza l’aiuto del marito: «Non è stato facile portare questo carico da sola», racconta. Profondamente addolorata ricorda Amichai e di quando è stato il momento di andare nell’esercito: «Eravamo felici, tutto andava bene, ma poi un cuore puro è stato portato via. Era adorabile un’anima sacra e pura legata alla famiglia, timido, che voleva servire l’esercito e portare avanti l’eredità del padre e del nonno».
Infine, Yosef Ranan, shaliach del Bene Akiva di Milano ha condiviso un pensiero sul significato di essere assieme nell’esercito, tutti uniti: « Anche io ho avuto l’onore di essere nell’esercito. La cosa che aiuta è che tutti hanno al proprio fianco un compagno che è disposto a dare la vita per loro. Questa è una sensazione molto particolare, unica di quando fai il militare. Una responsabilità reciproca».
Nella foto in alto: particolare del National Memorial Hall for Israel’s Fallen con le targhe dei nomi dei caduti (Fonte foto: Wikipedia)