Riflessione sul significato della memoria

Ebraismo

di Roberto Zadik

Haim Baharier alla serata "Riflessioni in casa sul Giorno della Memoria" (Foto M. Golizia)

Una serata speciale per commemorare ma anche per riflettere, per ricordare e pensare a come vivere ogni giorno la propria identità ebraica sospesa fra le ferite del passato e le sfide della quotidianità.

Cosa significa oggi il giorno della memoria? Qual è il suo valore nel presente e nel futuro e che cosa rappresenta questa data, in rapporto ai singoli e alla società circostante. Queste e molte altre tematiche sono state oggetto di discussione e di approfondimento da parte di importanti storici, pensatori e grandi rabbini. Durante la manifestazione , il 26 gennaio, sono saliti sul palco dell’affollatissima Aula Magna della Scuola ebraica di via Sally Mayer Rav Roberto Della Rocca e il Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib, Haim Baharier, grande studioso, matematico e biblista, il direttore del Cdec, Michele Sarfatti, lo storico, scrittore e saggista David Bidussa e la vicepreside della scuola ebraica torinese Sonia Luzzati.

Una sala colma di gente comune e di personalità, come Magdi Allam, saggista e vicedirettore ad personam del Corriere Della Sera, che tutti insieme hanno partecipato a questa importante occasione di dialogo e di riflessione collettiva ma anche personale e intima di ognuno di noi, indipendentemente dalle diversità religiose e politiche.

Come ha detto  Daniele Cohen, assessore alla Cultura della comunità milanese, questa “è ormai diventata la settimana della memoria  che ci fa ragionare su cosa significhi questa giornata, su come noi in quanto popolo ebraico dobbiamo relazionarci e ragionare su questo tema”. Dopo il suo breve discorso introduttivo, Cohen ha dato la parola agli ospiti. A cominciare da Rav Roberto Della Rocca, Direttore del DEC, Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane,  che ha detto “Ogni giorno è il giorno della memoria e questo succede affinché tu ricorderai come sei uscito dall’Egitto”. Collegando una lunga serie di fonti, dalla Torah, con versetti e citazioni tratte dal libro di Devarim o prendendo spunto dal sacrificio di Isacco, fino ai midrashim e alla saggezza chassidica, Della Rocca ha specificato che “tutti noi non siamo più usciti dalla Shoah e che non dobbiamo soffermarci a una memoria celebrativa e monumentalizzata”. Egli ha, dunque, invitato tutti a una dimensione ebraica quotidiana, applicata ogni giorno recitando lo Shemà e mettendo i tefillin.

Subito dopo, David Bidussa, si è interrogato sulla data del 27 gennaio e su cosa essa oggi rappresenti. Perché proprio questa data e non altre? A che cosa e a chi serve questa giornata? Secondo Bidussa questa è ormai “una scadenza entrata nel mondo civile, con cui abbiamo un rapporto riflessivo e non identitario, non è il giorno dei morti ma un giorno in cui i vivi riflettono sulle conseguenze delle ideologie quando esse diventino azioni pubbliche”. Proseguendo nel suo discorso egli si pone la domanda se “abbiamo bisogno di date per sapere chi siamo? Le date da sole non dicono niente a nessuno”. Egli ha poi specificato che “questo Paese si è lentamente misurato con il tema della memoria” e che più che soffermarci a delle ricorrenze “non dobbiamo smettere mai di riflettere”.

Tanti contributi e innumerevoli tematiche e spunti di riflessione. Michele Sarfatti, Direttore del CDEC, ha rievocato la nascita di questa data, il 27 gennaio, liberazione da Auschwitz ricordando che essa è stata decisa dieci anni fa, nel 2000 dopo una complessa selezione, cominciata a metà degli anni Novanta, fra varie possibili ricorrenze legate alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei. Fra queste, la razzia del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, o il 17 novembre 1938, quando furono emanate le leggi razziali in Italia. Oltre a questo, Sarfatti, pone importanti interrogativi ai quali è difficili dare una risposta.  Che data scegliere dunque e come parlare di Shoah oggi alle giovani generazioni? Ricordando il proprio rapporto con i liceali e gli studenti delle scuole, egli si sofferma su quando andò a tenere una lezione a Roma, presso il Liceo Tacito. “Senza alcun tipo di pregiudizio una ragazza di 17 anni” dice Sarfatti, “mi chiese perché solo gli ebrei e non altri hanno questo giorno?”. La risposta è che “in questa data gli ebrei devono legare la propria memoria a quella collettiva”.

Molto emozionante la testimonianza di Sonia Brunetti Luzzati, vicepreside della Scuola ebraica di Torino.  Partendo dalla provocazione di un giornalista spagnolo che in un suo articolo descrive come Auschwitz sia diventato un luogo turistico  con gruppi di persone che fanno le foto col cellulare in un posto di tale tragicità. La Luzzatti ha detto che vi è un processo di “banalizzazione” della Shoah, sottolineando quanto sia difficile raccontare quanto è successo alle giovani generazioni. Come ripercorrere gli avvenimenti e da dove cominciare. Bisogna partire, dice la Luzzati, “ dall’inizio e non dalle camere a gas ma anche lì cosa dire e in che modo?”. Specialmente in riferimento alla Shoah dei bambini, la vicepreside esterna le proprie difficoltà emotive e didattiche nello spiegare ai più piccoli come altri loro coetanei siano morti. Quale linguaggio utilizzare?  Bisogna modificare il modo di descrivere l’Olocausto? Per la vicepreside c’è ancora molto da fare per rafforzare la memoria e la consapevolezza affinché, citando lo scrittore ungherese Imre Kertesz “l’Olocausto non diventi un canone e un tabù”.

Concludendo la lunga serie di interventi, Haim Baharier ha sottolineato che la memoria “necessita di un linguaggio nuovo e che dobbiamo  imparare a leggere le tracce  per capire cosa stia succedendo e quali siano le conseguenze”. Confrontando la Shoah con l’uscita dall’Egitto “ci ricordiamo più facilmente un qualcosa che è avvenuto quaranta secoli fa che della Shoah”. Figlio di due ebrei polacchi reduci dai campi di steriminio, Baharier, nato a Parigi, specifica che egli si definisce “scettico verso il giorno della memoria” così com’è attualmente concepito e invita a “uscire dalla logica dello sterminio”. Per questo ci sono cinque regole fra le quali “bisogna valutare i crimini, e valorizzare la libertà”.

Un discorso profondo al quale è seguita la riflessione del Rabbino Capo di Milano, Alfonso Arbib e la conclusione del Presidente della Comunità milanese Roberto Jarach. Rav Arbib riprende gli interventi di Bidussa e di Sonia Luzzati invitando “a prestare attenzione riguardo al fatto che questa data non diventi un surrogato di identità nazionale e che il ricordo della Shoah non è identitario”. Che cosa dobbiamo fare?

Rav Arbib risponde dicendo che “ andiamo a tentoni e sono più le domande che le risposte e che non bisogna fermarsi a una sola data ma creare collegamenti con le varie date e ci vuole, riprendendo quanto detto da Baharier, un rinnovamento del linguaggio nel difficile compito di conservare la memoria perché “l’uomo è portato a dimenticare”.

In chiusura della serata, il Presidente Jarach ha ringraziato gli ospiti sul palco e fra il pubblico, come Magdi Allam, presentando successivamente una serie di importanti iniziative. Fra queste l’appuntamento del 9 febbraio nel quale verrà illustrata la Torah ai ragazzi, in una serata alla quale parteciperanno ospiti prestigiosi come Rav Arbib, Rav Della Rocca e Rav Wassermann, della Sochnut di Israele, mentre il 16 marzo si parlerà di etica ebraica.