Quer pasticciaccio brutto de l’Oremus

Ebraismo

di Vittorio Robiati Bendaud

Scrittore e giornalista, Marco Politi è stato per 17 anni il corrispondente vaticano di La Repubblica e prima ancora de Il Messaggero. Attualmente è commentatore de Il Fatto Quotidiano e con la Cnn, la Bbc e la Rai. Assieme a Carl Bernstein, Premio Pulitzer, ha pubblicato la biografia best-seller di Giovanni Paolo II His Holiness-Sua Santità. La sua intervista del novembre 2004 al Cardinale Joseph Ratzinger ha avuto un’eco internazionale. Presentato in pompa magna nella prestigiosa cornice dell’Archivio di Stato a Roma, l’ultima fatica di Marco Politi è il libro, Joseph Ratzinger. Crisi di un Papato (Laterza), un’analisi documentata e coraggiosa del pontificato di Benedetto XVI. Il deputato Furio Colombo, nel corso della presentazione, ne ha parlato come di un libro che aiuta ad orientarsi, capace di catturare un pezzo importante della storia che stiamo vivendo. Il sesto capitolo è curiosamente intitolato L’ira dei rabbini: in pochi anni di papato, infatti, Benedetto XVI ha totalizzato ben tre crisi scatenatesi tra ebraismo e cristianesimo cattolico.

Signor Politi, nel suo libro lei descrive vari aspetti della personalità di Benedetto XVI. l’intellettuale, l’appassionato di musica, il fine teologo, l’uomo affabile ed ironico, il temibile “inquisitore”, la persona riservata e timida, il fiero pontefice, il gaffeur. A suo avviso vi è un tratto che prevalga sugli altri?

Quella dell’attuale Pontefice è una personalità complessa, con molte sfaccettature, persino contraddittoria: offrirne uno stereotipo sarebbe rendere un pessimo servizio al lettore. Aspetti molto diversi, forse anche conflittuali, convivono non sempre facilmente. È bene poi tenere presente sia il suo passato durante il Concilio Vaticano II, quando era uno dei teologi dalle posizioni riformiste più all’avanguardia, sia gli sviluppi successivi del suo pensiero che lo collocano su una posizione di difesa allarmata dell’identità e della tradizione cattolica. In tal senso ricordiamo che per molti anni svolse un’azione di inflessibile custode della dottrina cattolica, rivelandosi molto duro verso dissidenti e “deviazionisti”. È altrettanto vero che è una personalità, un teologo, un pensatore di grande acume, anche dotato di umorismo e di grande simpatia umana all’interno di una cerchia più intima, pur essendo fondamentalmente timido.

Questo pontificato, come lei ben fotografa nel suo libro, per certi versi sembra una successione di scivoloni, di incomprensioni, di piccoli passi avanti accompagnati da clamorose retrocessioni. È una cosa voluta? Che cosa ci rivelano della “macchina” vaticana questi fatti?

Anzitutto in Vaticano c’è la tendenza a ridimensionare le crisi sistematiche che accompagnano questo pontificato, riducendole a errori di comunicazione. Dichiarazioni o provvedimenti, che scatenano veri e propri disastri mediatici e diplomatici, vengono controbilanciati successivamente da chiarificazioni e atti positivi.  Da quanto ho visto, però, non posso dire che le ferite causate vengano effettivamente superate, facendo sì che si rimargino pienamente. A mio avviso tutto questo tradisce le difficoltà di governo proprie di Benedetto XVI: si avverte la mancanza – o la carenza di attenzione – di una visione geopolitica, che si misuri incisivamente e positivamente con la situazione reale di società e religioni.

Ma possibile che gli uomini di Curia non riescano a far presente al Pontefice i rischi e i possibili esiti infausti di certe sue asserzioni o provvedimenti? Dall’esterno, in questi frangenti, sembra che spesso la macchina informativa vaticana “improvvisi”.

Sicuramente questo tradisce la drammatica disorganizzazione della Curia Vaticana. Ciò premesso, è difficile e crea disagio a molti uomini di Chiesa, per un senso comprensibile di lealtà istituzionale, contraddire o avanzare riserve e dubbi sulle decisioni papali. Papa Ratzinger, poi, da una parte mostra uno stile di governo molto verticistico e monarchico, dall’altra si coglie l’immagine di un papa in estrema difficoltà.

Venendo ai rapporti tra Chiesa Cattolica e mondo ebraico, in questi anni è accaduto un certo sconquasso: la restaurazione della preghiera dell’Oremus, la reintegrazione dei Lefevriani, l’Affare Pio XII. Nel libro, lei  rende conto di questa amara successione di fatti. Oltre a riaprire una ferita nel mondo ebraico, ci sono state ripercussioni, almeno in due occorrenze, nel mondo cattolico. Può diffondersi un po’ al riguardo?

È accaduto qualcosa di inimmaginabile e molto grave. La possibilità, per chi vuole, di riutilizzare il vecchio rito (dentro cui troviamo riformulata una preghiera per la conversione degli ebrei) non è una cosa neutra, meramente liturgica. Il vecchio rito veicola un’idea di Chiesa totalmente posseduta dal clero, in cui i fedeli sono ridotti a passivi spettatori. Chiaramente il problema non è il latino. Tutti coloro che hanno praticato per decenni, dal Concilio ad oggi, il rito riformato voluto dal Vaticano II si sono sentiti offesi e frustrati. Simultaneamente si è ferito enormemente il mondo ebraico. E poi c’è la questione dei vescovi Lefevriani reintegrati: se da una parte si è di nuovo offeso l’ebraismo con la revoca della scomunica al negazionista Williamson, punta dell’iceberg di un lefebvrianesimo profondamente antisemita, parimenti si è letteralmente spaccata in due la Chiesa Cattolica, sia per questi motivi sia perché i Lefevriani negano valore al Concilio Vaticano II che ritengono un male assoluto. E il Concilio Vaticano II è proprio quello che con i suoi documenti ha aperto la strada per il riavvicinamento e il dialogo tra ebrei e cattolici.

Ma qualcuno non ha provato a “metterci una toppa”?

So che il Cardinal Bertone propose a Benedetto XVI la soluzione liturgica di compromesso, inserendo nel vecchio rito la formulazione in latino dell’attuale preghiera per gli ebrei, voluta da Paolo VI, che parla di “popolo primogenito dell’alleanza” e che non invita alla conversione al cristianesimo. Ma la proposta di Bertone è stata respinta dal Pontefice.

Allora il problema sembrerebbe essere il Papa. Ma appare molto strano dato che nei suoi scritti (e nei documenti pontifici da lui controfirmati nel corso del pontificato di Giovanni Paolo II), Ratzinger si dimostra amico e vicino al Popolo ebraico e rispettoso della fede di Israele. Come dobbiamo leggere questo strabismo?

Quanto ha ricordato è corretto. Quello che si coglie è uno iato; e questo è un problema ricorrente in talune decisioni adottate da Benedetto XVI. Le faccio un esempio. Benedetto XVI, riferendosi agli ebrei, ha parlato di “nostri padri nella fede”. Si tratta di un’espressione assai significativa in senso positivo. L’espressione usata da papa Wojtyla era “i nostri fratelli maggiori”. E lei ben sa che quest’ultima espressione proprio nel contesto dei testi biblici può dare adito a interpretazioni poco felici. Dunque papa Ratzinger ha fatto meglio. Eppure esiste anche tutto il resto, di cui ora stiamo parlando. Certamente Benedetto XVI tiene moltissimo al dialogo con il mondo ebraico. In questa prospettiva le gaffes e i grandi sbagli verificatisi sono contraddittori e ancora più drammatici.

Torniamo ai Lefevriani. Lei afferma che il Vaticano venne avvisato delle tesi negazioniste di Williamson dal vescovo di Stoccolma Arborelius e dal Nunzio Apostolico presso i Paesi Nordici, ben prima del deflagrare dello scandalo; successivamente Padre Lombardi, il portavoce della Santa Sede, affermò che né lui né tantomeno il Papa erano a conoscenza di questo stato di cose; infine i Cardinali Bertone e Castrillòn Hoyos, rispettivamente il Segretario di Stato e il referente per la questione lefevriana, asserirono di un aver mai ricevuto alcun avviso. Si tratta di una fronda filo-lefevriana e conseguentemente antisemita, di una macchinazione ai danni del Pontefice e di quanto resta del Dialogo o di che altro?

Mi sento di escludere certamente queste opzioni. Molto più semplicemente, anche in questo caso, si tratta del pessimo funzionamento della macchina curiale e di una grave mancanza di vigilanza dello staff del pontefice.

Sembra incredibile…

Eppure è vero, glielo assicuro. Ed è drammatico.

Prima di questo problema c’era stata la crisi sulla reintroduzione della preghiera “Pro Iudaeis” che, seppur depurata dall’espressione “perfidis Iudaeis”, a più di quarant’anni dal Concilio Vaticano II, reintroduce e riafferma l’invito alla conversione degli ebrei. Anche in questo caso la ferita è stata duplice.

Sì, lo sbocco disastroso della mala gestione di un problema, nato dalla volontà di far contenti i nostalgici della messa preconciliare e gli scismatici lefevriani. Fu un altro fatto tragico sia per i rapporti con il mondo ebraico sia all’interno della Chiesa Cattolica: non pochi infatti furono i vescovi, i teologi e i semplici fedeli indignati.

Il Cardinale Achille Silvestrini scriveva: “il rapporto con l’Ebraismo è entrato nelle viscere della vita ecclesiale. Ricordo l’emozione di quel Venerdì santo del 1959, quando Giovanni XXIII improvvisamente chiamò il maestro delle cerimonie e disse: «Per favore, tolga quel “perfidi” dalla preghiera che facciamo il Venerdì Santo». Tutto cominciò da lì.”. Come disse il Cardinale Walter Kasper, un nuovo inizio. Di cosa è inizio la reintroduzione di quella vecchia formula? E che dire dei collaboratori?

Dico che in Joseph Ratzinger convivono aspetti contraddittori e che la macchina curiale non riesce a gestire le cose come si potrebbe presumere. Per quel che riguarda i collaboratori, all’epoca, per queste tematiche, il collaboratore diretto era proprio il Cardinale Kasper, che cercò di salvare la situazione in più occasioni, per quanto poteva. Anche in questo caso si è provveduto poi a provare di spiegare, contestualizzare, sanare, ma la ferita ormai era stata inferta. A più riprese alcuni eminenti leaders dell’ebraismo tedesco e americano hanno fatto chiaramente presente la loro insoddisfazione e il loro disagio per queste ragioni direttamente a Benedetto XVI. Ma è mancata la risposta.

La Sua opinione sulla recente visita del Pontefice nella sinagoga di Roma. Mi ricordo che Lei intervistò -proprio all’indomani delle dichiarazioni sulle virtù eroiche di Pio XII-, il rabbino Giuseppe Laras, che peraltro fu molto criticato da alcuni esponenti dell’ebraismo italiano per le posizioni nette che assunse.

Sono stato presente sia alla visita di Giovanni Paolo II sia a quella di Benedetto XVI, e tra le due c’è una notevole differenza. Mi ricordo l’emozione fortissima e la commozione che accompagnò tanto da parte cristiana che da parte ebraica quell’evento. È stato un fatto storico a pieno titolo. Quest’ultima visita è stata preceduta dall’esaltazione di Pio XII e da un conseguente mare di polemiche. E non dimentichiamoci che si era già verificato lo strappo dell’Oremus e dunque l’interruzione per un anno della Giornata dell’Ebraismo del 17 gennaio da parte ebraica! Oltre a ciò non ho avvertito né emozione né commozione: si è trattato più di un mero fatto diplomatico, evidentemente molto caldeggiato anche dalla Comunità ebraica di Roma e dallo Stato di Israele. Le posizioni di Laras ebbero il pregio di essere franche. Le sue parole vanno ad unirsi al coro di voci molto ferme al medesimo riguardo dei rappresentanti dell’ebraismo tedesco e anglo-americano americano sulle crisi provocate dal Vaticano.

Il Dialogo tra mondo cristiano e mondo ebraico è stato animato più che mai dal Cardinale Carlo Maria Martini, un uomo che è anche uno dei più lungimiranti e raffinati intellettuali italiani. Che cosa rimarrà delle prospettive da lui aperte in Italia e in Europa?

Premetto che la dichiarata volontà di Martini di non voler essere candidato all’elezione pontificia per le difficili condizioni di salute ha influito moltissimo sugli esiti dell’ultimo conclave. Della sua azione, della sua visione di Chiesa, rimarrà tantissimo. Martini è una figura cardine del cattolicesimo contemporaneo. Il suo lavoro resta un fondamentale punto di riferimento -anche per quanto attiene i rapporti con l’ebraismo- per un nutrito numero di vescovi e cardinali.

A questo punto, considerata la malattia di Martini, gli scivoloni vaticani, le posizioni di Benedetto XVI, il ritorno in auge delle correnti più oltranziste, che futuro per il Dialogo?

Credo che la via del Dialogo imboccata dalla Chiesa Cattolica con il Concilio Vaticano II -e che è stata portata avanti coraggiosamente da Paolo VI e Giovanni Paolo II, e che lo stesso Benedetto XVI auspica, è la strada che la Chiesa continuerà a percorrere. Possono esserci rallentamenti, ma la strada è quella, anche oggi, e quella resterà,  sia dal punto di vista religioso ed etico sia in una prospettiva geopolitica.

Lei è un vaticanista. Oggi i numerosi cardinali che vissero in prima persona la stagione del Concilio Vaticano II -o che furono nominati da Giovanni Paolo II-,. sono molto anziani oppure sono morti. Il Collegio Cardinalizio ora è conseguentemente costituito da un cospicuo numero di elettori nominati da Benedetto XVI. Che scenari prevede per il futuro: nuove aperture o nuove chiusure?

Non si può rispondere a questa domanda! Ogni conclave è un fatto a sé, e unica è l’atmosfera che lo contraddistingue: un processo impalpabile, un sorgere e un tramontare di candidature. Poi all’improvviso arriva la bonaccia. E ci sono i colpi di scena: i cardinali quando devono votare, non essendoci più il pontefice regnante, sono completamente liberi di esprimersi e muoversi. Quanto al futuro, terrei conto di ciò che è avvenuto in passato: gli elettori di Giovanni XXIII erano nella stragrande maggioranza stati nominati da Pio XII, e guardi che cosa ne è scaturito, un deciso e profondo cambio di rotta!