Venezia, l’ombra lunga dei cancelli del Ghetto

Viaggi

di Vittorio Robiati Bendaud

ghetto veneziaUn mondo chiuso, sospeso tra campi, calli e canali. Luogo di antiche memorie e di vestigia perennemente rugose per la salsedine, il ghetto veneziano vive oggi di un’atmosfera cosmopolita e incuriosita, ammiccante ai tanti turisti di passaggio, che si dibattono tra storia, sapori etnici, souvenir e oggettistica ebraica che fa mostra di sé nelle vetrine dei negozianti locali, ebrei e no. Un tuffo al cuore, quello che forse dovremmo provare entrando in Ghetto. Tuffo che però non arriva, distratti da infinite, disturbanti curiosità e da tanta bellezza.

E questo è il primo problema. Ciascuno entra nel ghetto a cuor leggero. I turisti ebrei americani restano ammirati da una storia di cui hanno letto e che ora scoprono con i propri occhi, dal vivo, assieme ad altri splendori italici. Gli israeliani, religiosi o chilonì, laici, che siano, sono presi in contropiede da questa pagina fondamentale della storia collettiva del Popolo ebraico che, in larga misura, ignoravano. Gli ebrei italiani si cullano nel dolce mare di un celebre stralcio di italianità ebraica, capace ancora di far parlare di sé. I turisti non ebrei, italiani o meno, disserrano per la prima volta memorie di cui non erano a conoscenza e si fanno serenamente sedurre dal fascino di un “etnico” non troppo invasivo e quasi familiare.

Entrare in Ghetto, quando la Venezia ebraica era viva e brulicante, era una cosa molto seria e per niente indolore; un piccolo passo spaziale – qualche decina di centimetri di selciato-, ma un grande passo simbolico-sociale. Era il luogo dell’esclusione e del disprezzo. Al contempo, era il luogo della protezione da un mondo esterno ambiguo, pericoloso, spesso aggressivo, divenuto per i raminghi Bené Israel, una vera e tangibile possibilità di residenza. Entrare in Ghetto oggi significa studiare il menù di ristorantini kasher specializzati nei piatti in saòr, programmare le visite a magnifiche e deserte sinagoghe, rubare lo scatto al chassìd Lubavitch che attraversa la calle, rendendola così automaticamente “ebraica” e così via… Non è poi difficile trovare qualche passaggio, più angusto degli altri e trascurato dalla gran parte dei turisti e dal loro vociare, per sentirsi avvolgere da un’atmosfera remota.

Il demone dissacrante che sonnecchia in ciascuno di noi non ha tutti i torti nel volersi risvegliare: quelle calli -quando c’erano davvero gli ebrei e una Comunità nota in tutto il mondo ebraico per secoli-, non possedevano affatto la “magia” romantica e nostalgica che tanto piace oggi. Vicoli che straripavano di un’umanità di ogni genere, di varie provenienze e lingue, alternandosi a persone umanamente straordinarie altre forse non molto raccomandabili; stradine che puzzavano probabilmente più intensamente di quanto non puzzassero le strade di qualsiasi altro quartiere di una città medievale, rinascimentale e moderna; calli e campi, infine, ricolmi di persone che stipulavano accordi commerciali ed economici, dibattevano di questioni politiche e culturali, si entusiasmavano di problematiche religiose ebraiche. Sulla carta ordinata e regolamentata, insomma, regnava la vita, con il suo grado di disordine e follia creatrice.

Il Ghetto, insomma, non era una bomboniera ornata di pizzo in una città di marzapane. Le sinagoghe erano costantemente frequentate e chiassose, nonostante gli inviti al silenzio. La vita quotidiana era frenetica, poca riservata, in ambienti sovraffollati e iper popolosi. I rapporti, pur fiorenti e continui, tra “interno” e “esterno”, conoscevano lo stigma del “sospetto”. Gli ebrei sospettavano i gentili e le loro mutevoli politiche nei loro confronti; il popolino odiava e temeva gli ebrei, da cui spesso dipendeva economicamente, doppiamente stranieri. Stranieri perché ebrei tra cristiani; stranieri perché tedeschi, spagnoli o levantini tra veneziani. Così ricorda, nel suo ottimo Storia del Ghetto di Venezia 1516-2016, lo storico e saggista Riccardo Calimani. Cifra della diversità linguistica, religiosa, culturale ed etnica, e inafferrabili alla comprensione comune, gli ebrei locali furono bollati dalla “rondella gialla” per riconoscerli e differenziarli dal resto della popolazione.

Infine, nel marzo 1516, in anticipo di quatto decadi rispetto ai provvedimenti famigerati di papa Paolo IV, la Repubblica Serenissima istituì il Ghetto, sorvegliato e chiuso, i cui sorveglianti e guardiani – oltraggio e beffa-, dovevano essere retribuiti dagli stessi ebrei . Nel Ghetto le madri sfamavano i loro figli e stendevano i panni, ci si sposava, si ballava, si suonava e cantava. Nel Ghetto si parlava di denaro, e i soldi degli ebrei facoltosi erano più che utili a una Venezia sempre in guerra col turco e ai veneziani affamati di scintillante lusso (lo testimoniano le ripetute leggi suntuarie che ne sanzionavano l’esibizione di ricchezza). Desiderati per i loro quattrini, odiati per i loro soldi, necessari e tollerati per la loro capacità di prestito ed elargizione.

E così, com’è noto e come accadeva in tutta Europa, gli ebrei, compresi i rabbini, si erano resi conto che il denaro ti salva la vita, rappresentando drammaticamente l’unica speranza concessa, marchio di odio e infamia e, al contempo, unica, paradossale arma a disposizione per sopravvivere e per ottenere qualcosa in cambio, quando le sorti si facevano difficili. Eppure, nonostante questa amara presa d’atto, Venezia rispettò i patti presi. E fu grande. E gli ebrei, pur separati e tollerati, prosperarono e si integrarono indissolubilmente nel tessuto sociale, simbolico e urbano della Serenissima. Per questo diede ricetto e ospitalità a facoltose famiglie marrane in fuga, come gli Abravanel, Dona Gracia Mendes, Ferdinando Cardoso e molti altri ebrei di Spagna. Le case-torri, le calli, si chinano immutate su di noi mentre scorre il nastro trasportatore della Storia. Qui a Cannaregio, in questi campielli, nel settembre del 1943 si aggirava, in preda all’angoscia, Giuseppe Jona, il Presidente della Comunità di Venezia, pochi giorni prima di suicidarsi, gesto estremo per non consegnare ai nazisti le liste degli ebrei di Venezia.

Il mondo ebraico è costellato di atti di eroismo che nessuna Storia si è mai data la pena di tramandare; Venezia ne conserva il ricordo. In visita al Museo Ebraico, le guide vi racconteranno di tutto e di più. Rievocando per noi la meraviglia che per cinque secoli colse il viaggiatore ebreo che avesse varcato quei famigerati cancelli. C’è infatti un aspetto che sfugge al visitatore che si inoltra nel Ghetto veneziano: è quel senso di potenza e forza che coglieva l’ebreo della Diaspora, europeo o proveniente dall’altra parte del Mediterraneo, quando entrava qui. Prima e dopo Lepanto, Venezia e il suo ghetto rappresentarono un autentico baluardo, uno dei pochi, per gli ebrei di ogni dove. Una specie di cassaforte ebraica. Un forziere, da cui fu possibile dispiegare un tesoro ebraico. Vi si stampavano le opere di Maimonide e lo Shulkhàn ‘Arùkh di Yosef Caro con il commento in loco di un grande pensatore come Mosheh Isserless. Qui arrivò l’umanista ashkenazita Bachur Levita a stampare la traduzione dei Tehillim in yiddish nonché il suo incredibile poema cavalleresco, Bobo d’Ancona (Bovo Bukh), in perfetto stile ariostesco, anch’esso in yiddish. Vi si intrecciavano i legami di parentela tra le famiglie dell’ebraismo sefardita di mezzo mondo. Il Tribunale Rabbinico locale aveva estesa giurisdizione ed era stimato e temuto nel Mediterraneo e oltre. I rabbini veneziani producevano halakhah perché lì gli ebrei vivevano, non soltanto “sopravvivevano”. E i rabbini veneziani, al pari di alcuni loro confratelli livornesi, erano richiesti e consultati a Londra, Amsterdam, New York, Philadelphia.

La stessa cosa accadeva lungo le coste mediterranee, spesso contese agli Ottomani, dove gli ebrei veneziani erano un ponte culturale e commerciale speciale con la Sublime Porta e con le prospere e nutrite comunità ebraiche d’Oriente (tutte fuggiasche dalla Spagna), dominate da Istanbul, l’antica Costantinopoli.

Oggi tutto questo è difficile da cogliere. Il Ghetto, pur animato e frequentato, resta orfano dei tempi che furono, troppo taciturno e silente. Eppure quella Venezia ebraica, vivace e palpitante, ci manca e viene un po’ di tristezza a veder languire i fasti di un così eccezionale passato.