di Anna Balestrieri
Centinaia di cineasti italiani e internazionali chiedono alla Mostra del Cinema di Venezia una condanna “chiara e inequivocabile” di quello che definiscono “genocidio ed epurazione etnica” a Gaza; la Biennale replica rivendicando apertura al dialogo e citando i film in programma che affrontano direttamente la guerra.

Cosa c’è nella lettera: firmatari, richieste, parole d’ordine
V4P (Venice4Palestine) ha diffuso un appello, firmato tra gli altri da Matteo Garrone, Marco Bellocchio, Alice e Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Abel Ferrara, Ken Loach, Céline Sciamma, Audrey Diwan, Fiorella Mannoia, Mario Martone, Laura Morante, Toni e Peppe Servillo, Paola Turci, Jasmine Trinca e Carlo Verdone, che invita la Mostra, la Biennale e le sezioni parallele (Giornate degli Autori e Settimana Internazionale della Critica) a “prendere una posizione chiara e non ambigua” contro le azioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania. L’incipit cita Auden: “Fermate gli orologi, spegnete le stelle”, per sostenere che non si possa “andare avanti come prima”. Tra le richieste: spazi di dibattito e iniziative permanenti su “epurazione etnica, apartheid, occupazione illegale, colonialismo”. “Chiediamo che venga ritirato l’invito a partecipare alla Mostra a Gerard Butler, Gal Gadot e a qualunque artista e celebrità che sostenga pubblicamente e attivamente il genocidio. E che invece quello spazio venga messo a disposizione di una nostra delegazione che sfili sul red carpet con la bandiera palestinese”. L’appello ha ottenuto in pochi giorni oltre 1500 firme.
Secondo gli organizzatori, da quasi due anni arrivano “immagini di chiarezza inequivocabile” dalla Striscia e dalla Cisgiordania, cui il mondo del cinema non può restare indifferente.
La risposta della Biennale
La Biennale di Venezia ha ricordato che festival e istituzione “sono da sempre luoghi di discussione aperta e sensibilità verso i temi più urgenti”, e ha indicato come prova le opere selezionate quest’anno, in particolare The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, in concorso, sul caso della bambina palestinese uccisa a Gaza nel 2024. “La Biennale è, come sempre, aperta al dialogo.”
La direzione ha anche ricordato che nel 2024 Venezia presentò l’israeliano Of Dogs and Men di Dani Rosenberg, girato all’indomani del 7 ottobre. Quest’anno, invece, non risultano titoli israeliani nei concorsi principali, dato segnalato anche dalla stampa israeliana.
L’82ª edizione della Mostra si svolge dal 27 agosto al 6 settembre 2025. Un’ulteriore iniziativa annunciata è una manifestazione “stop al genocidio” promossa dalla rete Artisti #NoBavaglio per il 30 agosto, nel primo fine settimana del festival.
Dati umanitari e informazione: cosa dicono (e non dicono) i numeri
Gli appelli citano un quadro umanitario devastante. Secondo l’AP, oltre 62.000 morti nella Striscia dall’ottobre 2023 (dato del Ministero della Sanità di Gaza, gestito direttamente da Hamas, non verificabile in modo indipendente). La classificazione IPC ha parlato a fine agosto di “carestia” nell’area urbana di Gaza, con rischio di espansione senza cessate il fuoco e accessi umanitari più ampi. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) documenta oltre 190 reporter e operatori dei media uccisi dall’inizio del conflitto (stime variabili a seconda delle fonti; gli appelli citano cifre più alte). Questi dati sono oggetto di contestazione da parte israeliana, specie sulla qualificazione di “carestia” e sulla responsabilità per gli accessi umanitari, oltre che sul “doppio lavoro” del “giornalisti”, uccisi – affiliati ad Hamas.
Le posizioni di Israele: autodifesa, ostaggi, accuse di genocidio
Dal lato israeliano, la guerra è definita un’azione di autodifesa contro Hamas dopo il 7 ottobre 2023 (circa 1.200 israeliani uccisi e 251 persone sequestrate). Israele respinge come “prive di fondamento” le accuse di genocidio perché mancherebbe l’“intento” richiesto dal diritto internazionale e afferma che le Forze di Difesa israeliane operano contro obiettivi militari, con misure di mitigazione dei danni ai civili e che Hamas usa infrastrutture civili e “scudi umani”. Secondo l’inviato per gli ostaggi, circa 50 persone resterebbero in cattività a Gaza, “di cui circa 20 vive” (stima aggiornata a fine luglio).
Il governo israeliano sostiene inoltre di trovarsi sotto attacco su più fronti: Hezbollah dal Libano, i ribelli Houthi dallo Yemen con missili e droni (intercettati in gran parte da Israele), e minacce in Cisgiordania; nelle ultime ore Israele ha colpito Sanaa in risposta a un missile Houthi. Questi elementi alimentano la percezione – diffusa nel discorso pubblico israeliano – di un “accerchiamento” non solo militare ma anche simbolico negli spazi culturali globali.
Diplomazia e polarizzazione internazionale
Il dibattito culturale si intreccia con la diplomazia. Francia e Regno Unito hanno annunciato l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina a settembre all’ONU; Australia e Malta hanno comunicato che faranno lo stesso. Israele ha reagito duramente, accusando questi passi di “premiare il terrorismo” e “punire le vittime” del 7 ottobre.
La piazza internazionale continua a mobilitarsi a favore dei palestinesi (manifestazioni di massa in Australia il 24 agosto), mentre cresce la pressione per un cessate il fuoco duraturo e un accordo sugli ostaggi. Questo clima entra inevitabilmente anche a Venezia, dove il confine tra cinema e realtà è più poroso che mai.
Nello spazio pubblico globale Israele appare costantemente sotto attacco, con manifestazioni, prese di posizione politiche e copertura mediatica che spesso non distinguono tra un’organizzazione terroristica e la popolazione civile, né tra aggressori e difensori. Le piazze occidentali si riempiono di bandiere palestinesi e slogan di sostegno alla “resistenza”, mentre raramente si ricordano i crimini di Hamas, il suo rifiuto esplicito del diritto di Israele a esistere e l’uso sistematico della popolazione di Gaza come scudo umano. Questa narrazione rovesciata produce un effetto paradossale: Israele, uno Stato riconosciuto e democratico, diventa agli occhi di molti l’aggressore, mentre un’organizzazione armata responsabile di massacri e sequestri viene romanticizzata come vittima o forza di liberazione.
Le Nazioni Unite e molte organizzazioni internazionali hanno ripetutamente denunciato le operazioni militari israeliane, parlando di “crisi umanitaria” e di “uso sproporzionato della forza”. Ma poco spazio è stato dedicato al fatto che Israele agisce in risposta a un attacco sanguinoso senza precedenti sul proprio territorio, che ogni operazione militare è condotta contro un avversario che si nasconde deliberatamente in ospedali, scuole e moschee, e che nessun altro Stato al mondo resterebbe inerte davanti a un simile pericolo per i suoi cittadini. La sproporzione non è tanto nelle armi, quanto nell’attenzione pubblica: le condanne verso Israele si moltiplicano, mentre il terrore inflitto da Hamas viene quasi normalizzato o minimizzato.
In questo quadro Israele si percepisce e viene percepito da molti suoi sostenitori come un paese letteralmente accerchiato. Circondato da forze ostili, deve costantemente giustificare il proprio diritto a difendersi e a proteggere la propria popolazione. La legittimità stessa dello Stato, riconosciuta dal diritto internazionale e dal sistema delle Nazioni Unite, viene messa in discussione da slogan che invocano la sua cancellazione. Questa condizione di assedio diplomatico e simbolico non è meno pesante di quella militare: l’isolamento politico rischia di trasformarsi in isolamento morale, con il mondo pronto a empatizzare con chi lancia razzi sulle città israeliane più che con le famiglie che corrono nei rifugi con i bambini in braccio.
Resta il fatto che venti ostaggi israeliani sono ancora prigionieri a Gaza. La loro sorte è un costante promemoria del carattere terroristico del nemico che Israele affronta. Eppure, mentre si discute di cessate il fuoco e di corridoi umanitari, questi ostaggi sembrano sparire dal discorso pubblico internazionale, quasi fossero un dettaglio secondario. Per Israele, invece, sono il cuore del conflitto: cittadini innocenti che devono essere riportati a casa, simbolo di uno Stato che non può permettersi di dimenticare nessuno dei suoi.
Il dibattito internazionale sembra dimenticare che Israele non ha cercato questa guerra, ma l’ha subita. La sua reazione non è un atto di conquista, bensì di sopravvivenza. Se non difendesse i propri cittadini, lo Stato stesso cesserebbe di esistere. Invece di riconoscere questa realtà, gran parte del mondo preferisce leggere il conflitto attraverso una lente ideologica che criminalizza Israele e assolve chi ne nega la legittimità. Questa distorsione contribuisce a mantenere Israele in una condizione di solitudine, costretto a combattere non solo per i propri confini, ma anche per il diritto di essere considerato uno Stato come gli altri.
Venezia come “spazio conteso”: arte, etica, programmazione
La Biennale rivendica di aver dato spazio a opere che mettono al centro vittime civili e responsabilità politiche, come The Voice of Hind Rajab; gli estensori della lettera replicano che “non basta”: chiedono una presa di posizione esplicita dell’istituzione, oltre alla programmazione. Il paradosso è evidente: mentre si chiede al festival di “interrompere il flusso dell’indifferenza”, una parte del mondo israeliano e della diaspora percepisce i grandi eventi culturali come spazi in cui la narrazione filoisraeliana fatica a trovare legittimazione, specie in Europa.
E l’industria? Rischi e opportunità di un “attivismo culturale”
Il rischio segnalato da molti professionisti è la trasformazione dei festival in “tribunali morali”, con pressioni a conformarsi; l’opportunità è usare il cinema come infrastruttura di ascolto: tavole rotonde con voci israeliane e palestinesi, focus su ostaggi e corridoi umanitari, approfondimenti legali (crimini di guerra, genocidio, responsabilità di comando), evitando letture monocordi e lasciando parlare film, testimoni e dati verificabili.
Che cosa aspettarsi nei prossimi giorni
Il 30 agosto potrebbero esserci cortei e iniziative dentro/fuori la Mostra; ogni gesto pubblico della Biennale sarà letto politicamente.
Possibili eventi collaterali su Gaza e sul 7 ottobre, anche su impulso degli stessi firmatari.
Nuove dichiarazioni dei governi in vista del dibattito ONU di settembre sulla Palestina, con ricadute sul clima al Lido.
Venezia 2025 è già uno specchio del mondo diviso. La sfida – per artisti e istituzioni – è “fare spazio” a un confronto reale, dove parole come genocidio, terrorismo, autodifesa e diritti umani non siano slogan contrapposti ma nodi da sciogliere con fatti, testimonianze e responsabilità.
Dall’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, che ha causato centinaia di morti civili israeliani e il rapimento di circa 250 persone, Israele si trova in una condizione di assedio non solo militare, ma anche politico e mediatico. Circa cinquanta ostaggi (tra vivi e morti) si trovano ancora oggi nelle mani di Hamas a Gaza, eppure l’attenzione internazionale si concentra quasi esclusivamente sulla sofferenza palestinese, lasciando in secondo piano la sorte di questi prigionieri e il diritto di Israele a difendere i propri cittadini.