La scrittrice Marina Gersoni Jarre con la giornalista Marina Gersony

Ritorno in Lettonia, nel buio della notte

di Marina Gersony

La scrittrice Marina Gersoni Jarre con la giornalista Marina Gersony
La scrittrice Marina Gersoni Jarre con la giornalista Marina Gersony

«Nel momento in cui alla partenza da Torino l’aereo prese a rullare, seduta accanto al finestrino mi voltai, coprii il viso con la mano e incominciai a piangere. Pietro se ne accorse e scherzò: “Mamma – disse – , hai ancora tempo per metterti a piangere…”». Quel giorno del 1999, Marina Gersoni (mia omonima), sposata Jarre, il cognome del marito, andava a Riga con suo figlio Pietro, dov’era nata nel 1925 e da dove, nel 1935, la madre l’aveva portata via con la sorella piccola. «I miei genitori stavano divorziando. La mamma decise di portare me e la mia sorellina in Italia. Partimmo di nascosto da mio padre su una strada ferrata secondaria; mia madre temeva che il tribunale decidesse di affidarci a lui», ricorda la scrittrice. Una fuga che avrebbe salvato loro la vita. Le armate di Hitler, allora, erano ancora lontane.

Attraversarono tutta l’Europa per approdare a Torre Pellice, dove si sarebbero stabilite nella casa della nonna materna. Una partenza appunto segreta, all’insaputa del padre, e uno strazio abissale. La piccola Marina non avrebbe mai dimenticato quello strappo brutale, il doversi lasciare alle spalle la casa paterna di Andreja Pumpura iela numero 2 senza aver potuto salutare il padre che rimarrà per sempre una figura sospesa e rincorsa nella vita. Un padre che lei aveva “tradito”. Dieci  anni dopo la guerra, da una lettera fortuita di una lontana cugina scampata, seppe che egli era morto nella strage di Riga del 30 novembre 1941 con la figlia di cinque anni Irene, avuta da una relazione con una giovane infermiera tedesca. Ricorda l’ultimo cenno di vita giunto da lui: «Era l’ottobre del ’41, io iniziavo il liceo a Torre Pellice. Un giorno alla fine di luglio arrivò inopinatamente una strana lettera da nostro padre, che ci supplicava con insistenza di aiutarlo a venire via da Riga. Non spiegava il perché, affermava di essere malato. Era una lettera molto lunga. In una piega centrale del foglio, sottolineata con un segno irregolare, la frase che non capii a quel punto fatale: “perché ricordatevi che anche voi siete ebree”. Tuttora la rivedo distintamente, parola per parola». In Italia, almeno fino al processo di Norimberga, si ignorò la realtà della fine degli ebrei dell’est Europa e, a dire il vero, si ignora in parte ancora oggi. Meno che mai se ne aveva notizia durante la guerra.

Così ricorda Marina Jarre, 88 anni, scrittrice italiana, una quidicina di romanzi all’attivo (tra cui i più celebri e premiati Ritorno in Lettonia, Negli occhi di una ragazza e I padri lontani), molti pubblicati da Einaudi e Bollati Boringhieri, oggi uno scricciolo di donna e una vita familiare così dolente da portarla sui luoghi dell’infanzia con 65 anni di ritardo.

Il padre di Marina si chiamava Samuel Gersoni, «un uomo selvaggio e caotico, molto bello e coraggioso». Samuel aveva combattuto nell’Armata rossa fra il 1918 e il 1919, poi, ritornato in Lettonia, era stato allenatore sportivo e in seguito rappresentante della Michelin per i Paesi Baltici. Tombeur de femmes, dotato di sense of humor e affascinante, si era sposato nel’25 con la valdese Clara Coïsson conosciuta a Riga dove lavorava come lettrice di italiano all’Università. La nascita delle due figlie, Marina e Annalisa (Sisi), non bastò a tenere in vita un matrimonio che presto si logorò tra incomprensioni, tradimenti e liti fino al divorzio. Dopo la fuga in Italia della moglie e delle figlie, Samuel rimase in Lettonia. «A quei tempi molti ebrei lettoni vivevano bene. I miei nonni e zii abitavano in belle case nel quartiere più elegante di Riga. Noi in un complesso allora moderno sulle rive della Daugava. Per noi il fiume era la Düna, detto in tedesco, la nostra lingua. Il ghetto non esisteva più già quando, nel 1886 era nato mio padre, in una casa accanto alla conceria del nonno. Nessun ebreo poteva essere dipendente statale, ma erano professionisti, medici, dentisti, industriali, commercianti. Una borghesia benestante. Riga era d’altronde una grande città europea».

Non fu più così quando il 1 luglio 1941 la città venne occupata dalle truppe naziste. Gli ufficiali dell’Einsatzgruppe A spinsero i nazionalisti locali a procedere a quelle che venivano brutalmente chiamate azioni di “auto pulizia” (Selbstreinigungsaktionen). Gli ebrei vissero un regime di terrore con aggressioni quotidiane, brutali cacciate dalle case e confische di beni; divieto di usare i mezzi di trasporto pubblico e di camminare sui marciapiedi, senza contare l’obbligo di portare la stella gialla. Storie tristemente note. Fino alle esecuzioni di massa nel bosco di Bikernieki e nella  di foresta di Rumbula. L’azione più massiccia e sistematica ebbe luogo verso la fine del 1941.

Samuel Gersoni era un ebreo consapevole e orgoglioso di esserlo. Nei suoi documenti la sua nazionalità era “giudaica” e la sua fede “mosaica”, definizioni ancora dell’impero russo nella libera Repubblica lettone nel 1925, quando gli ebrei a Riga erano 30.000, quanti ce ne sono in tutta l’Italia oggi. Marina Jarre non sa fino a che punto egli sapesse dell’incredibile antichità del proprio cognome e del significato del nome Gersoni, che racchiuderebbe in sé, marchio del futuro esilio, la radice ebraica gher, straniero. «Era ombrosamente fiero della sua appartenenza, come di un marchio scomodo e inevitabile – afferma la figlia -. Ogni volta che penso agli avi di mio padre, migliaia d’anni fa, quando vennero dall’Egitto e varcarono il Mar Rosso verso la terra promessa, mi coglie una vertigine d’incredulità e di miracolo. Il loro nome è giunto fino a me, in mio padre – e in me -, si ripetevano i loro lineamenti».

Samuel venne ucciso il 30 novembre 1941, una domenica mattina, lasciando in eredità la dolorosa incertezza su come si sia svolta esattamente la sua fine e quella degli altri parenti. Del resto, come ricostruire una sorte individuale in un eccidio di massa? «La morte di mio padre si era installata dentro la mia vita con lenta persuasione, non con il clamore di un colpo imprevisto. Intanto lavoravo, mi sposavo, avevo figli, poi nipoti, scrivevo, invecchiavo. I frammenti di quella prima remota stagione, non collegati tra di loro, quadretti immutabili, stavano fissi nella forma in cui li avevo custoditi e rappresentati nel mio libro autobiografico, I padri lontani».

Una ricerca senza fine per una figlia devastata dai troppi perché di una perdita mai davvero metabolizzata: «La strage mi aveva sfiorata, inconsapevole, e portavo il peso di un lutto improprio, in cui gravi vicende personali si erano intrecciate così strettamente con l’atrocità della storia. Mi sentivo colpevole verso mio padre e mi pareva di non avere diritto a un lutto». Ed è proprio in questo momento che Marina Jarre decide, quasi controvoglia, di accettare la proposta del figlio Pietro nel 1999, di tornare, sessant’anni dopo, in quel mondo perduto di ricordi sospesi e di incolmabili vuoti. «Non cercavo affatto di ricucirmi addosso le mie straziate radici paterne, ero tesa a medicare un passato del tutto intimo, confuso e insanabile, non a scandagliarlo». Tuttavia, al ritorno da Riga – ormai quasi ottantenne e vedova – la ricerca di notizie sul padre diventa la ricostruzione del calvario degli ebrei di Lettonia e del loro annientamento che Marina avrebbe poi raccontato nel libro Ritorno in Lettonia (Einaudi), vincitore nel 2004 del Premio Grinzane Cavour. Sono pagine intense che descrivono lo scenario dell’orrore che si mescola crudelmente con la bellezza dei luoghi: posti incantevoli come Kaiserwald (oggi Mežaparks), ad occidente di Riga nella piana sabbiosa tra la Daugava rossa e le magnifiche ville Liberty. Kaiserwald, “Bosco degli imperatori” in tedesco, si trasformò in uno dei tanti campi di concentramento nei periodi più oscuri della Storia. Dice Jarre: «In seguito sono tornata in Lettonia un paio di volte e ho notato che i lettoni stanno cercando di venire a patti con il loro passato di collaborazionisti con i tedeschi. Nel museo dell’Occupazione – quella sovietica – c’è un repartino con notizie precise sulle stragi naziste di ebrei; sulle rovine dell’incendiata sinagoga di Via Gogol sono esposte foto e notizie dei lettoni, pochi e coraggiosissimi che hanno cercato di aiutare gli ebrei, infine il luogo della strage, il bosco di Rumbula, è diventato un luogo pubblico (soltanto avvallamenti del terreno di qua e di là coprono tombe di massa che i tedeschi non hanno avuto il tempo di “ripulire”) percorso da una grande strada di accesso per automobili e ha perso ogni aspetto di segreto orrore… “Nessuno vi crederà”, dicevano i nazisti. Bruciavano e registravano, bruciavano e registravano. “Anche se per caso qualcuno di voi sopravvive e riferisce, nessuno crederà mai a quello che racconterete”, ripetevano e contavano con precisione i cadaveri disseppelliti per bruciarli prima dell’arrivo dell’incombente armata sovietica».

Nota dell’articolista: oggi Marina Jarre è vicina ai novant’anni. Lasciatemelo dire: è una persona di grande pensiero e di umanità profonda. Portiamo entrambe il nome Marina e – il caso vuole – il cognome Gersoni(y). Coincidenze identiche, tranne il dettaglio della “y” finale. In comune abbiamo i legami con Riga, nonché una lunga  storia di infinite erranze. Siamo cugine lontane con padri lontani, ebrei sefarditi espulsi dalla cattolica Isabella, sospinti di paese in paese dall’intolleranza e dalla miseria dei ghetti europei. Qualcuno ha viaggiato verso Nord, fino in Polonia e da lì, all’inizio del XIX secolo a Mitau, capoluogo del Granducato di Curlandia, oggi regione della Lettonia. Altri si sono sparpagliati nel mondo, Stati Uniti, Canada, Spagna, Brasile…

Il destino ci ha fatto incontrare in Italia, in occasione del suo Ritorno in Lettonia. Siamo diventate amiche, legate da quel filo invisibile e indistruttibile che si dipana da generazione in generazione per raccontare una storia individuale e insieme collettiva.

Che niente e nessuno potrà mai spezzare.