Nell’isola d’oro, dove fummo schiavi e poi banchieri

Ebrei di Sardegna.
Una presenza capillare durata 1400 anni
e di cui oggi non resta quasi più traccia. Diffuse in tutta l’isola, le Aljamas erano comunità ebraiche profondamente integrate nel tessuto sociale. A Cagliari, gli ebrei furono, per secoli, il 10 per cento dell’intera popolazione.
Una storia antica, ora in un libro

Sardegna«Noi sardi abbiamo tutti una goccia di sangue ebraico»: così aveva dichiarato l’artista e pastore evangelico Elio Moncelsi nel 2013 in un’intervista al quotidiano La Nuova Sardegna parlando del suo libro Ebrei in Sardegna: segni e disegni (Nuova Stampa), presentato ora a Milano con il contributo dell’Adei Wizo. Alla presentazione nella sede Adei, Moncelsi ha raccontato di come si sia interessato al tema della presenza ebraica nell’isola in relazione ai suoi studi biblici. Una ricerca lunga e impegnativa. Molta gente gli chiedeva perché si interessasse agli ebrei visto che lui non lo era: a loro Moncelsi rispondeva che «ci si può interessare agli indiani d’America senza esserlo per forza». E infatti quella degli ebrei sardi è una storia poco conosciuta ma che meriterebbe molta attenzione, poiché per molti secoli fu uno dei pochi casi, in tutto il mondo cristiano, in cui gli ebrei riuscirono a integrarsi perfettamente nella società ospitante. I sardi, come ha raccontato Moncelsi, sono un popolo ospitale che nel corso dei millenni si è mescolato con altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, i Fenici, i Greci, gli Ebrei e i Romani. Questi ultimi, dopo aver conquistato l’isola, per sfruttare al massimo le sue risorse agricole e minerarie, inviarono un gran numero di schiavi, tra cui molti ebrei. Nell’anno 19 e.v. l’imperatore Tiberio vi inviò anche un contingente di 4000 soldati ebrei arruolati a forza nella comunità giudaica di Roma, che stava diventando sempre più numerosa. In questo modo sperava di eliminare la questione ebraica nella capitale e allo stesso tempo fare in modo che ebrei e sardi guerreggiassero l’un contro l’altro eliminandosi a vicenda. La grande e diffusa presenza di ebrei in Sardegna è testimoniata da un gran numero di reperti archeologici, tra cui sigilli, anelli, lucerne ebraiche e lapidi funerarie recanti il simbolo di una Menorah. Dopo la dissoluzione dell’Impero romano gli ebrei sardi continuarono ad espandersi e ad avere le loro comunità e le loro sinagoghe, come confermano anche le lettere di Papa Gregorio Magno, il quale dava disposizioni al clero locale intorno all’atteggiamento da assumere in relazione agli ebrei di Cagliari, esortandolo a rispettare il culto praticato nella loro sinagoga.
Nel Medioevo, al tempo dell’imperversare della peste, quando nel resto d’Europa gli ebrei venivano perseguitati, perché considerati “untori” e responsabili del contagio, in Sardegna non vi fu persecuzione, in un clima di tolleranza che proseguì sotto il dominio iberico fino alla seconda metà del xv secolo. Gli ebrei ebbero un ruolo economico fondamentale come finanziatori delle svariate imprese belliche nelle quali la Spagna era coinvolta. Per tutto il periodo precedente alla scoperta delle Americhe, per tutto il 1400, i sovrani iberici furono letteralmente affamati di denaro fornito regolarmente dai finanzieri ebrei, i quali a loro volta ottenevano protezione e benefici fiscali, specie nell’isola sarda. Questo ebbe l’effetto di attirare in Sardegna un gran numero di ebrei di orgine anche spagnola, alcuni dei quali arrivarono a ricoprire posizioni e incarichi importanti nella società delle principali città sarde; l’espansione delle loro comunità, le Aljamas, arrivò a tal punto che nei primi anni del 1400 gli ebrei a Cagliari rappresentavano circa il 10% dell’intera popolazione.
Ma tutto questo ebbe fine nel 1492, quando si concluse in Spagna la Reconquista portata avanti dalla regina Isabella la Cattolica e dal marito Ferdinando d’Aragona che emanarono l’editto di espulsione degli ebrei da tutto il territorio del regno. L’editto mise gli ebrei di fronte a due alternative: o convertirsi al cattolicesimo o partire, perdendo così tutti i loro beni. Di fronte a questa scelta molti ebrei sardi optarono per l’esilio, ma altri, i conversos, accettarono la conversione divenendo marranos: fu su questi che l’Inquisizione rivolse le sue attenzioni per smascherare chi di loro continuasse a praticare di nascosto l’ebraismo. Fu così che l’isola si svuotò di una presenza che aveva 1400 anni di storia. Ma le tracce restano ancora vivide, per chi sapesse coglierle.
Alla vigilia del Secondo conflitto mondiale, il censimento del 1938 quantificò in 67 il numero degli ebrei nelle tre province sarde e su di loro si applicarono le restrizioni previste dalle Leggi razziali, ma non vi furono deportazioni durante la guerra.
Ma che cosa è rimasto dell’ebraismo sardo? Ancora oggi è possibile riconoscere moltissimi cognomi ebraici di origine sefardita e poi ci sono usanze e riti che ci riportano alla cultura ebraica, diffusa capillarmente nell’isola. Tra i cognomi sefarditi più diffusi vengono elencati: Acara, molto presente a Cagliari; Adarra, presente a Sassari; Barga, derivante da Barak; Dian, che deriva da Dayan; Frayn, che deriva da Efraim; Gabbai; Saba e Saia, che derivano da Sayas. Infine, per non dimenticare questo capitolo di storia sarda, nel 1999, Elio Moncelsi ha scolpito il monumento in cemento armato 19 D.C.: Approdo in Sardegna, situato vicino al porto di La Caletta di Siniscola e inaugurato dal superstite di Auschwitz, Piero Terracina, che ha detto: «Qui in Sardegna i discendenti di quei giovani deportati da Tiberio hanno lasciato consistenti tracce. Ci sono testimonianze della loro presenza, hanno influenzato la cultura e anche la lingua dei sardi, così come gli ebrei assorbirono usi e costumi del posto con reciproco influsso di idee, principi ed esperienze». A differenza di altri paesi, dove esistono già associazioni di marrani che richiedono il riconoscimento della loro origine ebraica, in Sardegna non vi è nessuna consapevolezza di tutto ciò, laddove si può dire si sia consumata un’assimilazione lenta e irreversibile. Il che, se da una parte è un peccato, d’altra parte sta a indicare quanto gli ebrei, come tutti gli altri gruppi etnici emigrati in Sardegna, siano riusciti a convivere e ad integrarsi anche nei periodi più bui della storia.
Il bisso, l’oro del mare
Bisso lavorato a telaioUn’isola, un rifugio, un luogo di gente caparbia e segreta. Forse per questo i marrani che qui restarono anche dopo la Cacciata, eredi di una presenza ebraica lontana, portata dalle navi fenicie e dai commerci marittimi di oltre duemila anni fa, conservarono i loro usi, arti, abilità. Le tracce si confondono e si annodano come un batuffolo di bisso, la seta del mare. Ma è proprio dal mare, dal sole e dalla terra di Sardegna che riaffiorano i segni, le radici di mestieri che ancora molto hanno di spirituale e quasi magico.
Fecero le tuniche di bisso, lavoro di tessitore, per Aronne e per i suoi figli; il turbante di bisso, gli ornamenti dei berretti di bisso, la cintura di bisso ritorto, di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto, lavoro di ricamatore, come il Signore aveva ordinato a Mosè (Es 39,27). Sono le parole di Torà che la giornalista Susanna Lavazza riporta nel suo splendido volume dedicato all’arte di Chiara Vigo L’ultimo Maestro di bisso (Carlo Delfino editore), colei che scende nelle profondità del mare di Sant’Antioco per raccogliere “le barbe” del mollusco Pinna Nobilis, dalle quali poi fila l’oro del mare, con cui ricama, tesse, intreccia. E ripropone antichi disegni e simboli. Come «l’albero della vita che – dice Chiara Vigo – ricorre anche in Israele: è una tradizione nel Mediterraneo. C’è sempre stato sull’isola di Sant’Antioco. Così come la tintura naturale con l’uva di Alicante, che dà il viola: potrebbe essere stata portata in Spagna dagli ebrei e poi in Sardegna. Secondo me le citazioni nella Bibbia fanno riferimento al bisso che si ricava dalla Pinna Nobilis, cioè alla seta del mare. Quando nella Torà si parla di un tessuto in bisso ricamato con le unghie ma senza l’ago significa che i disegni sono realizzati dentro la trama “a mostr’e agu”. Questa tradizione è tipica di Sant’Antioco. Appartiene anche ad altri paesi della Sardegna, come Bonorva. In genere, dove sono passati ebrei o maroniti la tecnica di tessitura è questa».
Ma gli ebrei sono per tradizione anche coltivatori di vite, cedro, mirto (usato per il Lulav a Sukkot). E oggi due ricercatori hanno trovato nel mirto sardo la prova dell’antica presenza di ebrei in Sardegna. “Tutto inizia quando l’antropologa cagliaritana Roberta Collu, ricercatrice e docente presso l’università Cattolica di Parigi, conosce il rabbino Gabriele Hagai, israeliano, che insegna filologia degli antichi manoscritti ebraici nello stesso ateneo”, scrive L’Unione Sarda, che ha seguito la storia. «Non abbiamo prove documentarie che testimoniano la presenza degli ebrei in Sardegna sin dall’epoca precedente a Cristo, se non alcune citazioni bibliche che parlano della terra di Tarso, cioè la Sardegna», afferma il rabbino: «Il liquore che da tanti secoli producete, però, proviene senza alcun dubbio dalla cultura biblica. Fu importato attraverso i commerci dei fenici da coltivatori ebrei che si insediarono in seguito alla Diaspora». E dalla storia al business il passo è breve. Perché non produrre il liquore di mirto kasher? È nata così una nuova etichetta internazionale: “Tresòrs de Tarsìs” destinata a Israele, Francia, Usa, per consumatori ebrei, dall’azienda Bresca Dorada di Muravera. Il mirto Hadhassiya è il primo risultato. Ma non c’è solo il mirto. La ricerca ha portato ad una seconda riscoperta, quella del cedro che si coltiva nel Sarrabus. Nasce quindi anche il limoncello Ethroghya, che dà alla Sardegna il profumo di Israele.

 

La lavorazione del bisso. Le immagini sono tratte dal volume di Susanna Lavazza Chiara Vigo L’ultimo Maestro di bisso (Carlo Delfino editore)