«L’umorismo è un luogo sicuro in cui fuggire, nessuno può farti del male quando ridi»

di David Zebuloni

Intervista a Hanna Laslo. Figlia di due ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz, Hanna Laslo è nata a Jaffa e già da giovanissima ha dimostrato il suo talento. È la prima (e unica) israeliana a vincere il premio del Festival di Cannes come migliore attrice protagonista

 

Non vi è nulla di più entusiasmante di conversare con Hanna Laslo, e nulla di più frustrante di riportare su carta le sue parole. Parole scritte che risultano sempre bidimensionali e grigie rispetto al racconto tridimensionale e colorato da lei narrato. Hanna, una delle più grandi attrici del cinema israeliano, l’unica ad aver mai vinto il premio del Festival di Cannes come migliore attrice protagonista, è un fiume in piena che ti travolge e che ti trascina con sé nel suo passato. Quando racconta la sua infanzia Hanna passa sempre da una lingua all’altra: dall’ebraico, all’inglese, allo yiddish. Quando racconta dei vicini di casa, Hanna imita le loro voci e le loro espressioni facciali. Persino gli accenti: da quello polacco a quello yemenita, da quello russo a quello persiano. Poi, quando racconta della ninna nanna che il padre le cantava prima di coricarsi, l’attrice si mette a cantare come cantava lui. Con gli occhi chiusi e la voce baritonale. E si commuove e sorride e piange e ride ancora. Figlia di due ebrei polacchi sopravvissuti ad Auschwitz, Hanna Laslo è nata a Jaffa e già in giovanissima età ha dimostrato il suo talento, diventando prima un’affermata comica, poi un’attrice drammatica, poi di nuovo un’artista poliedrica capace di passare dalla tragedia alla commedia a teatro e sul piccolo schermo. Negli ultimi anni, anche su Netflix, con i grandi successi Shtisel, Mossad 101 e Nebsu. In vista del suo nuovo spettacolo teatrale, che andrà in scena per la prima volta proprio il 27 gennaio e tratterà la vita di Ruth Westheimer, la terapeuta sessuale più famosa d’America sopravvissuta anche lei alle persecuzioni naziste, l’ho incontrata nel suo attico a Tel Aviv. Ogni attimo trascorso con Hanna è un’avventura.

Hanna, se siamo seduti qui oggi a parlare è per merito del caso o, forse, di un miracolo. I tuoi genitori, d’altronde, non erano destinati ad incontrarsi.
Sì. Ogni tanto scherzo dicendo che devo la vita a Hitler poiché, se non fosse stato per lui, io non sarei mai nata. I miei genitori si sono conosciuti sul treno di ritorno da Auschwitz. Mio padre era più grande di mia madre di dieci anni: lui ne aveva trenta e lei venti. Mio padre era già sposato quando è cominciata la persecuzione e poi la prigionia. Lui ce l’ha fatta, la prima moglie no. Mio padre era un uomo laico, mia madre invece apparteneva a una famiglia chassidica ultraortodossa. Entrambi avevano perso tutti nella guerra. Tutti. Non era rimasto loro nessuno. Credo che sia stata la solitudine ad unirli.

Si amavano?
Non credo si amassero alla follia. Voglio dire, erano molto premurosi l’uno verso l’altra e si rispettavano moltissimo, non li ho mai sentiti litigare, ma non credo ci fosse grande passione tra i due. Del romanticismo, non ne parliamo. La loro unione era nata con l’obiettivo di sopravvivere insieme alla vita. Mia madre era una donna fortissima, molto coraggiosa. Credo che mio padre avesse riconosciuto in lei questa forza, questo coraggio, e che ci si sia aggrappato.

Somigli più a tuo padre o a tua madre?
Da mia mamma ho ereditato la forza. Da mio padre tutto il resto. Mia madre non parlava, non raccontava. Mio padre, invece, era uno storyteller. Era un uomo brillante ed estremamente carismatico. Poi, proprio come me, anche lui amava moltissimo la vita. La bella vita. Amava il cibo, i vestiti, i gioielli, il lusso, le vacanze. Mia madre non ha mai usato un pettine: per aggiustarsi i capelli utilizzava le mani, senza guardarsi allo specchio. Anche a me diceva sempre di smettere di guardarmi allo specchio. “A furia di guardarti, alla fine sparirai”, ripeteva esasperata.

Forse si era abituata ad essere un numero o, peggio, l’ombra di se stessa.
Considera che dai quindici ai venti anni, è stata prigioniera. Sono anni cruciali nello sviluppo di una donna. Anni nei quali lei non si è mai guardata. Così anche dopo la guerra. Era una bella donna, aveva delle belle gambe, ma non lo sapeva. Non le ha mai messe in risalto. Non si è mai messa in risalto. Mio padre le chiedeva, la supplicava di mettersi un filo di rossetto, e lei sbuffava, si rifiutava. “Lasciami stare, sono tutte sciocchezze queste”, diceva.

Sai Hanna, siamo abituati ad immaginare i superstiti della Shoah ormai anziani, con il braccio stanco e il numero tatuato a tratti sbiadito. Tu, quel numero, l’hai visto marchiato su carne giovane e forte. Quanto è stato strano per te avere due genitori così diversi dagli altri?
Finché non ho incontrato il mondo esterno, non è stato affatto strano. Anzi, è stato normalissimo. Quando conosci una sola realtà, per te quella è l’unica realtà esistente. Mi accorsi della loro stranezza quando sono andata a dormire per la prima volta a casa di un’amica. Chaya Abutbul si chiamava. Ricordo che le chiesi perché i suoi genitori non avessero il numero sul braccio e lei non capì di cosa stessi parlando. Fu un momento particolare, ma non fraintendermi: ho avuto un’infanzia molto felice io.

Si può davvero crescere felici in una casa come la tua?
Certo che sì, felicissimi. I miei genitori erano estremamente attaccati alla vita e hanno avuto l’intelligenza di mettere al mondo quattro figli e dedicare loro tutto il loro tempo. Una volta chiesi a mia madre come avesse fatto a non impazzire e lei mi rispose che non ha mai avuto il tempo di impazzire. Era troppo occupata a crescerci, a cucinare, a stirare, a lavare, a cucire. Quando arrivava la sera, era così stanca, così esausta, così sfinita, che si addormentava in un attimo e non aveva la forza nemmeno di avere incubi. Mio papà gli incubi li aveva, invece, e spesso lo sentivamo urlare dalla stanza. Vedi, la tristezza in casa nostra non era mai in superficie, ma sempre nascosta sotto qualcos’altro.

Cosa sapevi del loro passato?
Solo ciò che mi raccontava il mio papà. La mamma si arrabbiava moltissimo, gli diceva di risparmiarci quei ricordi, ma lui non la ascoltava e, spesso di nascosto, ci raccontava la sua infanzia come se fosse una leggenda. “C’era una volta un uomo malvagio di nome Hitler che voleva ucciderci tutti, ma non ci è riuscito: alla fine abbiamo vinto noi”, diceva come se ci stesse leggendo una fiaba e io lo adoravo, volevo che continuasse ancora e ancora. Non capivo l’entità della strage, per me quello era un racconto di avventura.

I tuoi genitori si circondavano di amici che, come loro, erano sopravvissuti ai lager?
No, al contrario. Si allontanavano da loro. Non a caso nel nostro quartiere erano tutti persiani, yemeniti o marocchini.

Avevate un lessico famigliare particolare? Un linguaggio esplicito o implicito nato dopo la guerra?
No, se non l’yiddish che oggi parlo perfettamente con grande orgoglio, ma che all’epoca non era molto popolare nel nostro quartiere.

C’erano argomenti che non si potevano toccare in casa? Domande che non potevate porre ai vostri genitori?
No, era una casa nella quale regnava un certo tipo di umorismo, forse cinico e talvolta macabro, ma non vi erano silenzi assordanti. Al contrario, c’era sempre un gran rumore da noi.

I tuoi genitori non erano ossessionati dal cibo? Dal timore che mangiaste troppo o troppo poco?
No, no, no. Ricordo che nel periodo in cui ancora razionavano il cibo e ogni famiglia doveva andare a ritirare la propria parte, mia madre, orgogliosissima quale era, si rifiutava di andare e fare la fila. Diceva che aveva già aspettato abbastanza tempo in fila per ricevere ciò che le spettava. No, non era affatto isterica su queste cose. Il cibo, in casa, non è mai mancato.

Capisco.
Sembri deluso.

No, al contrario. Sono solo stupito. Con due genitori sopravvissuti ad Auschwitz, credevo che avessi avuto un’infanzia più malinconica di quella che racconti.
I miei genitori hanno deciso di garantirci una vita serena e hanno fatto tutto il possibile per crearsi una realtà che fosse quanto più normale. Non credo fosse eroismo il loro, ma la naturale predisposizione dell’uomo a sopravvivere. Anzi, a vivere. Mia mamma ripeteva sempre: “La depressione è un lusso che non posso permettermi”.

Molti figli di sopravvissuti raccontano dei traumi che i loro genitori hanno trasmesso loro. Tu Hanna, ne hai di traumi?
No, non credo di averne. O forse, il mio trauma è la tristezza. Voglio dire, la paura di essere triste. Il mio ottimismo ostentato, la mia necessità di far ridere me stessa e gli altri, nasce dal bisogno di far ridere in primis i miei genitori.

Era questo il tuo ruolo in casa? Farli ridere?
Sì, io ero la figlia divertente. Cantavo e recitavo per i miei genitori, sentivo di avere la responsabilità di renderli felici.

La decisione di incrociare la tua storia personale di figlia di sopravvissuti e la tua carriera di attrice e comica, è stata voluta o spontanea?
Assolutamente voluta. C’è stato un momento della mia vita in cui mi sono detta di voler in tutti i modi raccontare la storia della mia famiglia, dei miei genitori, ma in modo non convenzionale. Io non sono una testimone, quindi non posso testimoniare. Io sono un’attrice, posso recitare. Io sono una comica, posso far ridere. Così ho deciso di raccontarmi attraverso il cinema e il teatro, attraverso il dramma e la commedia. Credo di essere stata una delle prime in Israele a farlo. Prima era un tabù.

I tuoi genitori come reagirono?
Poco prima che morì, dissi a mia madre di voler tatuare il suo numero sul mio braccio. Lei andò su tutte le furie, mi fece giurare di non farlo, mi disse che non si era tanto sacrificata per garantirci una vita serena, per poi vedere sua figlia marchiata. Quando recitai in Adam Resurrected il ruolo di una sopravvissuta, chiesi comunque al regista di permettermi di portare sul braccio il numero di mia madre. In quel momento capii che aveva ragione lei. La truccatrice era riuscita a riprodurre esattamente il tatuaggio di mia mamma e ogni volta che vedevo il suo numero sul mio braccio, trasalivo. È stata un’esperienza orribile.

Parliamo dunque di umorismo e di Shoah. Spesso racconti la tragedia della tua famiglia in chiave ironica, irriverente, sarcastica. Perché?
Perché l’umorismo è una cura. È la mia cura. Attraverso lo humour sento che tutte le ferite della mia vita si rimarginano e diventano cicatrici. L’umorismo è un luogo sicuro in cui fuggire. Nessuno può farti del male quando ridi. L’umorismo è un’ancora di salvezza, più potente di qualunque arma ed efficace più di qualunque medicina.

Cosa ti faceva ridere dei tuoi genitori?
Moltissime cose. Mio padre, per esempio, diceva sempre i “tedeschimaledetti”, come se fosse una parola sola: tedeschimaledetti. Solo in età ormai adolescenziale, quando ho incontrato un tedesco vero e l’ho chiamato tedescomaledetto offendendolo a morte, ho scoperto in realtà che tedesco e maledetto sono due parole separate e non necessariamente da utilizzare insieme. Certo non oggi.

Tutti possono raccontare il dramma in chiave ironica?
Certo che no. Io, in quanto figlia di sopravvissuti, ho la possibilità di raccontare il passato come tu non potresti fare. È un diritto che mi spetta.

Ci sono dei limiti da non oltrepassare quando storia e commedia si incontrano?
Un limite sottile, ma fondamentale. Io non rido dei miei genitori e di ciò che hanno vissuto, ma rido con loro. La differenza è questa: ridere con qualcuno, non di qualcuno.

Da attrice, prediligi la tragedia o la commedia?
La tragicommedia. La tragedia con un tocco di commedia, è ancora più tragica. La commedia con un tocco di tragedia, è ancora più esilarante. D’altronde, il pianto e la risata sono estremamente simili. Provengono dallo stesso luogo. Hanno la stessa fonte.

Piangi mai sul palcoscenico?
No, se piango io non lascio a chi mi guarda lo spazio di piangere.

E quand’è che piangi?
Da sola, in privato. O con te, adesso.

Quando hai vinto il Festival di Cannes, hai deciso di dedicare il premio a tua madre. Perché proprio a lei?
In quel periodo era già molto malata. Tre mesi dopo, morì. Volevo che ricevesse questo riconoscimento davanti a tutto il mondo. Non avevo preparato nessun discorso perché non credevo di vincere, così improvvisai e dissi ciò che mi stava realmente a cuore.

Credi che i tuoi genitori fossero orgogliosi di te?
Sì, ma non per la mia carriera da attrice. Mia mamma mi diceva sempre: “Hanna, mi va bene che ti piaccia sognare, ma abbi sogni pratici per favore”.
Quando a diciott’anni venni presa per la prima volta come solista in una banda, corsi a casa a dirlo a mio padre. Lui stava pranzando, mi sorrise e mi disse: “Brava Hannale, ora passami il sale”. Capisci? La mia appartenenza al mondo dello spettacolo non era per loro fonte di orgoglio, ma mi volevano molto bene ed erano fieri della donna che sono, della mamma che sono.

Non nutri alcun rancore nei loro confronti?
Forse in passato, ma oggi sono grata loro per questa mancanza di entusiasmo nei confronti della mia carriera. Grazie a loro, il successo non mi ha mai dato alla testa. Sono sempre rimasta con i piedi per terra.

Il dono più grande che ti hanno fatto?
Avermi insegnato cosa sia l’amore per la vita. Io rido e faccio ridere non solo per professione, ma anche e soprattutto per necessità. Se rido, vivo.