donne in un lager

Le mestruazioni nel lager. Voci di donne fra testimonianza, memoria e storia

di Ilaria Ester Ramazzotti
Ci sono aspetti della prigionia nei lager delle donne, esperienze vissute e raccontate specificamente al femminile, che raramente trovano spazio nelle pagine pubblicate dagli storici. Eventi caratteristici della vita femminile quali le mestruazioni, seppur strettamente correlati all’esistenza e alla sopravvivenza all’interno dei campi di sterminio nazisti, sono stati trattati dalla storiografia in modo sporadico e solo dal lato medico-scientifico: riguardo alla fertilità del corpo, per esempio, come accade per le sterilizzazioni dovute ai cosiddetti ‘esperimenti medici’ o per l’amenorrea causata dalle privazioni inflitte. Soltanto alcune voci di donne, colte fra testimonianza e trasmissione privata o pubblica della memoria, hanno espresso e sottolineato il significativo vissuto umano legato a questo aspetto della vita femminile spesso considerato irrilevante dalla ricerca storiografica. Ne parla la storica britannica Jo-Ann Owusu in un articolo del 2019 sulla rivista History Today, poi ripreso dalla rivista Slate, e successivamente anche da Il Post, lo scorso 4 ottobre.

«Le mestruazioni sono un argomento che raramente ci viene in mente quando pensiamo all’Olocausto ed è stato un tema ampiamente evitato come area di ricerca storica. Ed è deplorevole, poiché le mestruazioni sono una parte fondamentale dell’esperienza delle donne. Testimonianze orali e memorie mostrano che le donne si vergognavano di parlare delle mestruazioni durante la prigionia nei campi di concentramento, ma allo stesso tempo mostrano che continuavano a tirare fuori l’argomento superando lo stigma ad esso associato», scrive Jo-Ann Owusu.

Dall’affermarsi della legittimazione dell’argomento, rilevata nelle parole delle sopravvissute, alla significativa importanza delle mestruazioni e dei diversi aspetti connessi all’evento in rapporto alla vita nei lager, la storica britannica spiega che se da un lato «le mestruazioni hanno coinciso con la vergogna del sanguinamento pubblico e con il disagio di non poterlo gestire», la loro assenza o scomparsa a causa del deperimento fisico e mentale evocava ansia e paura per una perenne sterilità e per la salute rovinata per sempre.

La loro gestione, che esponeva brutalmente alle atroci condizioni igieniche dei campi, fino alla ‘’disumanizzazione’’ delle donne, determinava altresì in alcuni casi la nascita di gruppi di solidarietà, “famiglie del campo” o “famiglie sostitutive”, delle quali parlano anche alcune storiche femministe citate da Owusu, come Sibyl Milton. Numerose sopravvissute hanno testimoniato che alcune adolescenti, che ebbero il loro primo ciclo proprio nei campi, trovarono complicità e sostegno nelle prigioniere più anziane. Non da meno, nacquero situazioni di “microeconomia” e di “commercio” di pezze e piccoli panni. Non ultimo, il sanguinamento mensile era connesso a fenomeni di disprezzo e violenza perpetrati sulle donne dai nazisti maschi.

Nell’articolo di Owusu sono parecchie le testimonianze citate a sostegno di queste esperienze vissute e convissute nei campi. «Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa – riferisce Liliana Segre, citata da Owusu -. La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne. Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò?».

Nel ricordo di una conversazione fra prigioniere riportato da Charlotte Delbo, partigiana francese, deportata e sopravvissuta di Auschwitz, si legge: «È sconvolgente non avere il ciclo… Inizi a sentirti più vecchia. Timidamente, Irene chiese: ‘E se dopo non tornassero mai più?’ Sentendo quelle parole, un’ondata di orrore ci travolse tutte. Le cattoliche si fecero il segno della croce, altre recitarono lo Shemà. Tutte cercarono di esorcizzare questa maledizione alla quale i tedeschi ci avevano condannate: l’infertilità. Come dormire dopo tutto questo?».

Trude Levi, un’infermiera ebrea ungherese deportata a vent’anni, spiega: «Non avevamo acqua per lavarci, non avevamo biancheria intima. Non potevamo andare da nessuna parte. Tutto ci rimaneva addosso e per me è stata una delle cose più disumanizzanti che abbia mai vissuto».

Julia Lentini, diciassettenne rom imprigionata prima ad Auschwitz-Birkenau e poi a Schlieben, testimonia di come le donne con le mestruazioni dovessero trovare delle strategie per gestirle: «Prendevi la biancheria che ti avevano dato, la strappavi, facevi delle piccole pezze, e le custodivi come se fossero d’oro…le sciacquavi un po’, le mettevi sotto il materasso e le asciugavi, così nessuno poteva rubartele». Alcune usavano altri materiali. Gerda Weissman, polacca deportata a quindici anni, dice: «Era una cosa difficile perché non avevi forniture, sai. Dovevi trovare piccoli pezzi di carta e altre cose dentro ai bagni».

In alcuni casi, le mestruazioni protessero e salvarono donne e ragazze da esperimenti “medici”, violenze o stupri. Elizabeth Feldman de Jong, per esempio, racconta che non ad Auschwitz smise di avere le mestruazioni, a differenza di sua sorella. Quando un medico la chiamò per sottoporla a un intervento sterilizzante, lei si presentò con i panni sporchi di sangue della sorella: il medico si rifiutò di operarla.

In generale, il vissuto, le relazioni, la sopravvivenza e la possibile resistenza alla disumanizzazione del lager erano per le donne legati anche allo svolgersi, alla comparsa o o alla scomparsa delle mestruazioni. Dopo la fine della guerra, spiega Jo-Ann Owusu, le donne che videro tornare il proprio ciclo mestruale lo festeggiarono come il ritrovamento delle loro identità e libertà. L’ex-deportata Amy Zahl Gottlieb, in un’intervista per lo United States Holocaust Memorial Museum di Washington, parla delle donne sopravvissute ai lager che, ricominciando ad avere le mestruazioni, le trasformarono nel «simbolo della loro libertà». Dalla prigionia alla liberazione, verso la ricostruzione delle proprie dignità, umanità e identità.