La scrittrice di Mashad tra rispetto e trasgressione

di David Zebuloni

Intervista a Esther Amini, ebrea persiana in America

Nonostante abiti nella lontana Grande Mela, la storia di Esther Amini ci risulta essere estremamente vicina, stranamente famigliare. Con i mostri di un passato glorioso e al contempo cupo, la sua storia è la storia di quelle centinaia di famiglie ebraiche residenti oggi a Milano, ma provenienti da un luogo speciale chiamato Mashad: una città situata nel cuore dell’Iran. “Osservando il mio albero genealogico, potrei tornare indietro di 2700 anni e risalire ai miei antenati, già allora situati in Persia”, mi racconta Esther. “Mashad è la città più fanatica in Iran, dove governa l’estremismo islamico.

Una città in cui non esiste alcun tipo di tolleranza per tutto ciò che si scosta minimamente dal credo o dal culto locale. Lì mia madre indossava il chador, un velo nero che copre la donna dalla testa ai piedi, fatta eccezione per due piccole fessure posizionate all’altezza degli occhi. Mio padre invece leggeva il Corano e pregava nelle piazze pubbliche cinque volte al giorno, fiancheggiato dai suoi amici musulmani. All’apparenza, la mia sembrava essere una famiglia musulmana a tutti gli effetti. Eppure non lo era, non lo erano affatto”. Sotto il chador e tra le pagine del Corano, infatti, si nascondeva una famiglia di religione ebraica molto devota. “Questi secoli e secoli di storia vissuti di nascosto, questa doppia identità sempre più lacerante, ti entrano nel DNA. Diventi paranoico, il mondo esterno ti fa paura e ti convinci che la vita sia un’eterna lotta per la sopravvivenza”. Stufi di dover nascondere la propria identità, i coniugi Amini hanno lasciato l’Iran nel 1940 in groppa ad un cammello, in cerca di un luogo tranquillo in cui vivere senza paura. Il viaggio è durato poco più di un anno e al suo termine si sono ritrovati a New York. “Io sono nata lì, ma era come se appartenessi a due mondi: quello medievale e radicale di Mashad e quello moderno e liberale di New York. Due luoghi e due culture diametralmente opposte, che mi hanno portata ad essere la donna che sono oggi: una grande ascoltatrice”.

Un’infanzia priva di libri
Con un esordio letterario importante, il libro autobiografico, Concealed, nominato dalla Kirkus Reviews uno dei migliori romanzi del 2020, ci sembra assurdo che nell’infanzia fosse proibito a Esther leggere i libri, eppure così è stato. “In casa nostra vigeva il silenzio, si parlava poco. Pensa che mio padre mi proibiva persino di leggere i libri, perché temeva che il mio cervello in qualche modo si mascolinizzasse e nessuno mi avrebbe più sposata. All’epoca pensare era una cosa da uomini, a noi donne non era autorizzato usare la testa”. Con lo stesso spirito ribelle e con la stessa determinazione che aveva caratterizzato i suoi genitori, intenti a salvaguardare la propria identità ebraica a Mashad, anche Esther ha deciso di sdoppiarsi per salvaguardare la propria identità culturale e intellettuale.
Aspettava dunque che tutti andassero a dormire per poi, con una piccola torcia, leggere di nascosto i libri sotto le lenzuola.

Cosa direbbe oggi tuo padre se sapesse che hai pubblicato un libro? Anzi, non un semplice libro, ma un’autobiografia di cui lui è protagonista assoluto!
Ride. “Credo che dopo essermi sposata, mio padre si sia un po’ calmato”, mi spiega Esther divertita. “Lui temeva che io diventassi una prostituta, che mi iscrivessi all’Università e diventassi una donna di strada. Temeva che l’istruzione mi rendesse troppo libera e trasgressiva, ma nel tempo ha cambiato idea a riguardo. Quando ho messo su famiglia si è molto rasserenato e, nonostante mio marito non fosse di origine iraniana come noi, lui lo adorava. Negli ultimi anni poi, quando andavamo alle feste comunitarie e mio padre incontrava i suoi amici persiani, mi teneva sempre a braccetto e mi presentava a loro: ‘questa è mia figlia, la dottoressa Esther’, diceva con un gran sorriso. Beh, io non sono una dottoressa, ma vederlo così orgoglioso di me mi emozionava molto. Credo che anche questo libro lo renderebbe orgoglioso di me”. Ed ecco il risvolto umano di quel padre così intransigente. Di quell’uomo segnato dal silenzio di un’esistenza vissuta nel terrore di essere scoperto. “Non sono arrabbiata con mio padre, perché so che voleva solo proteggermi”, dice Esther con tono sincero. “Mio padre ci ripeteva sempre che si era trasferito in America per manifestare liberamente la propria fede, ma non per diventare americano. Lui era e rimaneva iraniano. Non voleva che avessimo alcun tipo di contatto con il mondo esterno, ovvero quello al di fuori delle mura di casa. Era terrorizzato all’idea che qualcosa di estraneo ci potesse minacciare. Ci buttava sempre la posta e se qualcuno ci cercava al telefono, lui rispondeva che non c’era nessuno in casa. Nel mio libro c’è un episodio tragico ed esilarante nel quale racconto di una mia amica di scuola che era venuta a farmi visita. Mio padre aveva aperto la porta, io ero accanto a lui, la mia amica gli disse indicandomi che era venuta a giocare con me e lui rispose che gli dispiaceva molto, ma io non ero in casa. E chiuse la porte, sotto gli occhi increduli di quella povera ragazzina. Ecco, all’epoca io non capivo questi atteggiamenti, credevo che mio padre fosse l’ostacolo più grande della mia vita, ma oggi so che voleva solamente proteggermi dai quei dolori di cui lui stesso aveva sofferto a Mashad.”

Due identità per un cuore solo
Con grande sorpresa, nonostante il trauma vissuto dai suoi genitori a Mashad ed ereditato da lei a New York, Esther Amini va molto fiera delle sue radici iraniane. “Sono fiera dei miei antenati. Sono fiera del fatto che si siano aggrappati così tenacemente all’ebraismo in un’epoca e in un luogo in cui era severamente proibito farlo. Sono fiera del messaggio di continuità generazionale che hanno voluto trasmetterci. Sono fiera del loro coraggio, del loro eroismo”. A proposito delle due identità che vivono in lei, quella americana e quella iraniana, Esther dice di non cercare compromessi. “Non desidero combinarle, non voglio riassumerle in un’identità sola. Mi sono rassegnata al fatto che, quando incontro degli iraniani, mi sento estremamente americana. Quando incontro invece degli americani, mi sento estremamente iraniana”. Più che rassegnazione, quella di Esther è riappacificazione. Una riappacificazione con se stessa e con quella storia fatta di ombre e di silenzi che ha tanto tormentato la sua infanzia.

Dopo aver trascorso una vita a combattere il fantasma di un padre troppo severo, infatti, Esther ha imparato ad apprezzarlo e a identificarsi in lui. “La più grande passione di mio padre era la solitudine. Non gli piaceva stare con le persone, trascorreva molto tempo da solo e aveva un rispetto incredibile per il silenzio”, mi racconta. “Quando ho cominciato a scrivere il mio libro, ho dovuto isolarmi da tutto e da tutti. Fuori c’era il mondo, ma l’unica voce che sentivo era quella dentro la mia testa. Ecco, in quel momento, per la prima volta, credo di aver riconosciuto in me stessa un’impronta di mio padre e del suo silenzio”.

Sognando Mashad
Dopo aver raccontato la sua storia in un libro, dopo aver esorcizzato quel posto misterioso e affascinante che è per lei Mashad, rimane ad Esther ancora un sogno da realizzare: visitare i luoghi in cui i suoi genitori sono nati. “Mi piacerebbe moltissimo poter camminare per le vie di Mashad e sentire gli odori degli aromi tipici locali, ascoltare la lingua che si parlava a casa nostra, vedere i loro vestiti, assaggiare le mie pietanze preferite. Anche se non ho mai messo piede in Persia, mi sembra di portare quel luogo dentro di me: nelle ossa, nel cuore. Considerate le circostanze però, considerato il regime attuale, non credo che il mio sogno si possa realizzare. Tu che dici, ce la faremo?”. Mi coglie di sorpresa. Ripenso un attimo a Mashad. Ripenso a quel luogo così vicino e lontano in cui anche i miei nonni sono nati e che anche a me piacerebbe molto poter visitare. “Credo proprio di sì”, le rispondo. “Ce la faremo.”