La città e la lingua di Chaim Grade

di Roberta Ascarelli *

La voce poetica dell’ebraismo lituano e la sua scrittura, tesa tra sperimentalismo e tradizione, riportano in vita la patria perduta, Vilna, e lo yiddish. L’etica e l’umanità

Sommessamente Chaim Grade sta conquistando in Italia un suo posto tra i grandi autori della letteratura yiddish del Novecento. Un romanzo breve e accattivante, La moglie del rabbino, proposto nel 2019 da Giuntina per la splendida traduzione di Anna Linda Callow, ha attratto lettori e recensioni; poi, in questo giugno, la casa editrice fiorentina ha proposto con il volume Fedeltà e Tradimento due opere che mostrano tutta la ricchezza di una scrittura tesa tra sperimentalismo e tradizione: sono l’umorosa e “popolare” novella Di shuve (Il giuramento) e un’opera impegnativa e bellissima, Meyn krig mit Hersch Rasseyner (La contesa con Hersch Rasseyner).

A differenza di altri scrittori yiddish, Chaim Grade ha un solo tema: Vilna, l’ebraismo lituano, i fermenti di modernità che lo attraversano e una drammatica storia di persecuzioni, eppure, malgrado questo confinamento riesce magistralmente a dimostrare che ciò che conta nell’ebraismo (e nella vita) sono l’umanità e la compassione: «Amo i facchini con le schiene spezzate a furia di portare pesi, gli artigiani che versano il proprio sudore nei laboratori, le venditrici del mercato che si ammazzano di lavoro pur di offrire un boccone di pane a un povero. Voi invece fate la morale agli affamati dicendo che peccano e prescrivete loro di pentirsi».

A chi criticava l’angustia di questo mondo fatto di ricordi, Grade ribatteva ricordando i nomi di altri autori capaci di rappresentare il mondo senza uscire dai confini della loro città: «Dostoevskij non si vergognava del suo fallimento ad avventurarsi fuori da San Pietroburgo, né Tolstoj da Mosca né Dickens da Londra, né Balzac da Parigi. Allora perché devo vergognarmi di non essere riuscito ad avventurarmi fuori Vilna, in cosa Vilna è una città peggiore di New York?».
Vicino al movimento etico ed educativo dei Musernikes, Grade frequenta scuole e maestri con la prospettiva di diventare rabbino. Tra le sue guide spicca Avraham Yesha’yahu Karelits (Hazon Ish), una delle principali autorità del XX secolo che Grade ha ritratto con stima e devozione anche dopo esser tornato da poeta e profeta tra la sua gente: «Sono andato – afferma Chaim Vilner in La contesa con Hersh Rasseyner – a cercare una verità che voi non avete. In realtà non sono andato da nessuna parte, sono solo tornato nel mio quartiere, la strada delle macellerie di Vilna».

Con i giovani scrittori modernisti della yung-Vilne va incontro alla cultura europea, meticcia con libertà generi e genealogie, ma non abbandona linguaggi e temi della tradizione. È (e rimarrà) un poeta: nel 1936 esce la raccolta di poesie Yo (Sì) poi, nel 1939, il libro pio e ribelle Musarnikes, dedicato agli anni della sua formazione. In Yekhezel e Geveyen fun doires (Lamento di una generazione) annuncia spettrale la distruzione del popolo ebraico e, fino alla morte nel 1982, la Shoah rimane per Grade un rovello esistenziale e letterario, né cessa di interrogarsi sul senso del massacro né di tenere in vita con la scrittura un mondo che si è inabissato.

La yeshivà di Novaredok

Giunto nel 1948 negli Stati Uniti, pubblica la sua prima opera in prosa, Meyn kampf mit Hersch Rasseyner. I protagonisti di questo dialogo funambolico – insieme saggio, trattato e confessione lirica – Chaim e Hersh, un rabbino della yeshivà di Novaredok e un artista, hanno qualcosa di eroico e di antico: caparbi e idealisti, si sottraggono alla fenomenologia “americana” dello sradicamento e usano la fede come arma contro il nichilismo: «La Torah – afferma Grade – ci è stata donata per sapere come vivere, perché sapessimo come comportarci dal mattino fino alla sera, un giorno dopo l’altro, per tutta la vita».
Tradotto nel 1954 in inglese, questo testo si fa specchio di una immigrazione ebraica diversa da quella narrata da Isaac Bashevis Singer con i suoi personaggi smarriti e maniacali.
Ma Grade non si presta a rappresentare una yiddishkeit pia e, in fondo, conservatrice: non ama essere tradotto, né far parlare di sé e neppure vuole consolidare fama e guadagni. Nelle sue opere pubblicate a puntate nella stampa yiddish americana continua a parlare sommessamente dei suoi lutti e della sua patria tracciando figure soprattutto femminili di rara umanità e vivacità: Der mame shaboshim del 1955, Tsemakh Atlas (1967-1968), Die kloyz un di gas (1974).

Tradotti lentamente, i suoi libri raggiungono un buon successo anche grazie all’insistito paragone con Isaac Bashevis Singer, l’“americano” che dosava con sapienza il vecchio e il nuovo mondo e registrava tutto il disagio della modernità. «Grade e Singer, i più importanti scrittori di prosa yiddish dopo l’Olocausto – scrive Jan Schwarz – avevano opinioni molto diverse su come rappresentare gli ebrei dell’Europa orientale» e, soprattutto, di come narrare la Shoah. Nascono fazioni che prediligono ora uno scrittore profondamente religioso, «fedele biografo letterario di sua madre» e del suo tempo, «colmo di amore e di Torah», oppure un «galitsianer storyteller», il figlio ribelle che corteggia gli aspetti demoniaci della storia e attinge all’autobiografia per costruire narrazioni fascinose, variegate e sempre sorprendenti.

A differenza di Singer, lo scrittore che dosava con sapienza vecchio e nuovo, sacro e profano, Grade il poeta appartato, con il suo yiddish cangiante e una rigorosa prospettiva etica, regala al passato eternità e al presente umanissima compassione.

* Roberta Ascarelli è professore Ordinario di Lingua e Letteratura tedesca all’Università di Siena, professore di Letteratura Ebraica Contemporanea al Corso di Laurea in Studi ebraici a Roma all’Ucei, Presidente Associazione Studi Ebraico-Tedeschi, autrice di numerosi studi e saggi.