Kaminsky: il falsario che ingannò i nazisti

di Andrea Finzi e Sonia Schoonejans

Emigrato in Francia, mise la propria expertise nell’uso degli inchiostri al servizio della Resistenza contro i nazisti, prima, e di altri movimenti di liberazione e opposizione politica nel mondo, poi. Storia di un idealista umanitario

Produrre in soli tre giorni novecento documenti falsi fra carte d’identità, certificati di battesimo e carte annonarie per trecento bambini ebrei nella Francia occupata sarebbe stato un compito difficile anche per un’attrezzata tipografia clandestina, ma impensabile per un uomo solo, tantopiù se con i mezzi limitati di un laboratorio artigianale. Invece questa pazzesca impresa è stata portata a termine con successo nel 1944 da un ragazzo di soli 19 anni, che sarebbe divenuto il falsario più celebrato e ricercato (in tutti i sensi) tanto dalle diverse e frammentate sigle della Resistenza francese che dalla Gestapo e dalla polizia collaborazionista di Vichy.
Quel ragazzo si chiamava Adolfo Kaminsky, era nato a Buenos Aires nel 1925 da due ebrei russi già emigrati in Francia e di là espulsi nel 1917 durante l’epurazione dei sospetti sostenitori della rivoluzione bolscevica perché pacifisti e simpatizzanti del Bund, l’organizzazione socialista ebraica diffusa nell’Europa orientale. Dopo la nascita dei due primi figli maschi, la famiglia poté rientrare in Francia soltanto nel 1932, dopo un primo rifiuto da parte delle autorità e la forzata permanenza di due anni in Turchia dove la nascita di una bambina rese ancora più lunga la pratica di riammissione. I Kaminsky si installarono a Vire, un paese nel cuore della Normandia dove si integrarono facilmente e strinsero amicizia con le poche famiglie ebree che vi abitavano. Dopo l’invasione tedesca del 1940 Adolfo, ormai quindicenne, fu costretto a lasciare la scuola ed entrò come apprendista in una tintoria: fu questa l’occasione che fece scoccare il colpo di fulmine per la chimica dei coloranti e degli inchiostri che avrebbe determinato gran parte della sua vita. Nel laboratorio della piccola azienda, sotto l’occhio benevolo e stupito del padrone che ne ammirava l’inventiva, condusse diversi esperimenti e sviluppò delle personali tecniche di produzione e cancellazione degli inchiostri indelebili a seconda dei diversi tipi di carta e di tessuto sui quali venivano utilizzati.

Nel 1942, a seguito della falsa notizia che il padre Solomon era stato arrestato dalla Gestapo a Parigi, la madre, che era andata a cercarlo, morì cadendo da un treno in circostanze mai chiarite e questo rese ancora più cupa la situazione che la famiglia stava vivendo. L’anno seguente, il 22 ottobre 1943, padre e figli furono arrestati e imprigionati nel campo di Drancy alle porte di Parigi, dal quale tuttavia non vennero deportati all’ Est perché ancora in possesso di passaporto argentino. Fu grazie alla doppia nazionalità e all’intervento delle autorità consolari di quel Paese neutrale che vennero rilasciati nel gennaio 1944 dopo mesi di detenzione durante la quale avevano visto partire tanti conoscenti per un viaggio senza ritorno. La famiglia si disperse per Parigi per sopravvivere e nascondersi come meglio si poteva.

Fu a questo punto che Adolfo, per il passaparola che lo aveva segnalato come esperto nella chimica degli inchiostri, venne contattato da membri della “Sixième”, l’organizzazione clandestina del movimento giovanile ebraico EIS (Eclaireurs Israélites de France). Iniziò così la sua attività clandestina in un laboratorio installato nel cuore di Parigi, in un appartamento mascherato da atelier di pittura per giustificare il forte odore di colori e solventi che si diffondeva per le scale e al piano superiore. Il trucco fu così efficace che l’incaricato della lettura del contatore elettrico che periodicamente entrava nell’appartamento non mancava di complimentarsi ogni volta per i quadri frettolosamente dipinti e lasciati qua e là come richiedeva la messa in scena. L’attività di falsario per la “Sixième”, poi per l’ “Organisation Juive de Combat” e per altri gruppi della Resistenza che richiedevano la sua opera, continuò in altri laboratori clandestini con crescente pericolo di essere tradito e catturato man mano che la guerra volgeva al peggio per gli occupanti con l’avvicinarsi della liberazione di Parigi. La produzione di migliaia di documenti falsi di ogni genere fu un supporto fondamentale per la rete clandestina di resistenza e consentì il salvataggio di innumerevoli innocenti, soprattutto ebrei come i trecento bambini di cui si è detto, dispersi in diversi centri di raccolta nelle campagne e affidati a istituzioni ebraiche clandestine o ecclesiastiche. La preparazione di una retata di vaste proporzioni fu intercettata con pochi giorni di anticipo e fu questo il motivo dell’exploit eccezionale di Kaminsky che ricorda di essere caduto privo di sensi sul tavolo di lavoro dopo tre giorni e tre notti nei quali non aveva sospeso un attimo di creare con assoluta precisione i documenti falsi grazie ai quali tutti i bambini sfuggirono alla cattura.

Al momento della liberazione di Parigi, Kaminsky, che aveva appena vent’anni, era conosciuto come il miglior falsario della rete clandestina, ma ciò non gli valse pubblici onori bensì l’interesse dei servizi segreti militari francesi che lo arruolarono mettendogli a disposizione mezzi tecnici ed economici quali mai aveva sognato durante la Resistenza. L’esperienza al servizio dell’Armée durò però pochi mesi fino a quando, nel 1945, non si rese conto che la sua opera veniva sfruttata dagli agenti del controspionaggio che operavano in Indocina contro i movimenti indipendentisti delle colonie che la Francia stava tentando di riportare sotto il suo controllo dopo l’occupazione giapponese: una politica repressiva che la sua coscienza socialista e nemica di ogni ingiustizia politica e sociale non avrebbe mai accettato.
Nel 1946, impressionato da quanto aveva visto in Germania visitando un campo di raccolta di “displaced persons”, in prevalenza ebrei sopravvissuti alla Shoah, si buttò anima e corpo nella collaborazione con una nuova rete clandestina, quella che organizzava l’Alià Bet, l’immigrazione illegale in Palestina contro il blocco imposto dall’amministrazione britannica. Fra il 1946 e il 1948 produsse documenti falsi di ogni tipo per l’Haganà, per l’Irgun e perfino per il “gruppo Stern”; da quest’ultimo, tuttavia, prese le distanze non accettando la sua azione basata su omicidi mirati e attentati con vittime innocenti. Contribuì all’epopea della nave “Exodus” accorrendo anche al porto di Hyères per sostenere le manifestazioni di supporto agli emigranti in essa asserragliati contro la richiesta britannica alle autorità francesi di farli sbarcare con la forza.

Dopo la nascita dello Stato d’Israele, a differenza di molti amici che vi si erano trasferiti, decise di rimanere a Parigi dove si dedicò alla fotografia specializzandosi, fra l’altro, in enormi riproduzioni per cartelloni cinematografici. Avviò anche una personale attività di fotografo prediligendo scene di vita quotidiana che ritraeva con grande incisività e intuizione artistica.

Ma l’attività clandestina tornò ben presto a coinvolgerlo: fra gli Anni Cinquanta e Sessanta, sotto il nome di “Le technicien” (“il tecnico”) fornì il suo supporto al movimento di liberazione dell’Algeria nel quale militavano anche formazioni di francesi metropolitani anticolonialisti, capeggiati da Francis Jeanson. Il lavoro di falsario per l’FLN che svolse anche in Algeria, dove risiedette per molti anni, gli fece correre rischi anche peggiori di quelli passati durante la Guerra Mondiale, braccato con i suoi compagni dalla polizia, dai servizi segreti e dall’OAS che cercava di eliminare gli oppositori dell’“Algerie française”; fu quindi un continuo cambiamento di sede del suo laboratorio, dei luoghi dove viveva, delle persone con cui aveva contatto. Una vita turbolenta al pari delle sue relazioni femminili, molte ma di breve durata salvo quando, proprio in Algeria, incontrò Leila che divenne poi sua moglie.

Di nuovo a Parigi nel 1963 dopo l’indipendenza dell’Algeria, Kaminsky “il tecnico” continuò a essere richiesto dagli emissari dei movimenti rivoluzionari africani e sudamericani e diede il suo contributo alla resistenza contro il regime dei colonnelli in Grecia, di Salazar in Portogallo e di Franco in Spagna. Il suo idealismo umanitario gli impedì però di collaborare con i gruppi terroristi che emersero sempre più numerosi e infiltrati spesso dalla delinquenza comune, soprattutto a partire dalla fine degli Anni Sessanta; per questo motivo nel 1971 abbandonò definitivamente l’attività clandestina quando si accorse che alcuni passaporti da lui stesso prodotti gli erano ricomparsi davanti dopo un percorso che non era quello che lui aveva creduto, un utilizzo “sporco” che la sua rettitudine non ammetteva. Tornò così a dedicarsi esclusivamente alla sua passione per la fotografia che continuò a coltivare con l’abilità professionale e la capacità di cogliere l’attimo che ha ispirato tutta la sua vita.
Oggi, a 94 anni, Adolfo Kaminsky vive tuttora a Parigi ed è un vivace signore con un’imponente barba da rivoluzionario ottocentesco; coltiva i ricordi di una vita avventurosa guidata dall’impegno umanista e altruista che i genitori gli avevano trasmesso. Sua figlia Sarah Kaminsky, nata in Algeria, l’ha recentemente raccontata in un libro-intervista Adolfo Kaminsky. Un vie de faussaire, ed. Calmann-Levy,€ 17,50.

Al MAHJ, Museo d’Arte e di Storia del Giudaismo di Parigi, è in corso la mostra “Adolfo Kaminsky, falsario e fotografo”, aperta fino all’8 dicembre 2019, nella quale sono esposti cimeli della sua attività di falsificazione di ogni tipo di documento, un video di intervista recente da parte della figlia e una selezione di bellissime fotografie testimoni della sua lunga e feconda attività artistica. Una mostra da non perdere.