Edith Eva Eger

Edith Eva Eger: «Tra Bene e Male, siamo sempre liberi di scegliere»

di David Zebuloni

Cosa sarebbe accaduto se una psicologa fosse entrata in un lager nazista? Cosa avrebbe pensato delle vittime? Quale aiuto avrebbe potuto offrire? E se la vittima fosse stata lei stessa? Come avrebbe affrontato la fame, il freddo, l’odio e le violenze? Viktor Frankl è stato il primo dei sopravvissuti a raccontarci la prigionia dal punto di vista di uno psichiatra impegnato a capire la realtà circostante, oltre che a sopravvivere. Edith Eva Eger, invece, ci ha permesso di esplorare il suo mondo interiore di testimone e psicologa più di settant’anni dopo la tragedia. Nata in Ungheria nel 1927, Edith aveva appena sedici anni quando è entrata nell’inferno di Auschwitz. Sopravvissuta al nefasto, si è poi trasferita negli Stati Uniti, dove è risorta dalle ceneri come una fenice, diventando una delle psicologhe più affermate della sua epoca. Oggi Edith è il massimo esponente della Psicologia della libertà. Disciplina di cui lei è non solo ricercatrice, ma anche e soprattutto raro esemplare. La sua autobiografia, La scelta di Edith, è presto diventata best seller mondiale. Un’opera letteraria di raro spesso umano e psicologico, tanto che Oprah Winfrey ha raccontato che, dopo averla letta, la sua vita è cambiata per sempre. E posso certo capirne il motivo. Durante il nostro incontro virtuale, infatti, prima ancora che facessi in tempo a porle una domanda, Edith si è interessata a me come nessun intervistato aveva fatto prima. “Sei felice David? Ti ami abbastanza? Perché ti interessa questo capitolo buio della storia?”, mi ha domandato con dolcezza disarmante. Ecco che, come spesso accade, dietro al sorriso quiete da psicologa, dietro i capelli cotonati e gli ormai iconici foulard colorati firmati Chanel, Edith non è altro che una nonna che ha a cuore una cosa sola: il destino della generazione che la succederà.

Edith Eva Eger con la sua grande famiglia


Come sta Dr. Edith?

Non chiedere mai ad una persona come stia, poiché mentirà dicendoti che sta bene, anche se dentro ha una tempesta. Talvolta è meglio un’affermazione a una domanda. Potresti dirmi, per esempio, che ti fa piacere poter parlare con me.

Mi fa davvero molto piacere poter parlare con lei Dr. Edith.

Grazie David. Anche a me, è reciproco. Cosa vorresti chiedere a quest’anziana signora?

Vorrei porle una domanda semplice per la Edith psicologa, meno per la Edith sopravvissuta. Come avviene un trauma?

Vedi, quando la tua vita viene interrotta da qualcosa di inaspettato, potrebbe svilupparsi un trauma.

Lei una volta disse che i traumi non sono solo frutto di ciò che abbiamo vissuto, ma anche di ciò che non abbiamo vissuto.

Proprio così. Una volta mia nipote mi chiese di comprarle un abito da sera in vista del grande ballo della scuola, e io piansi come una bambina, senza capirne il motivo. Poi realizzai che stavo piangendo perché io non ho mai avuto la possibilità di andare al ballo della scuola. Questi sono disturbi emozionali irrisolti che ci trasciniamo appresso per sempre.

Qual è il più grande rimpianto della sua vita?

Non essere stata ammessa ai giochi olimpici come ginnasta, poiché ebrea. Mi allenavo almeno cinque ore al giorno, quel rifiuto mi sconvolse.

Come si affronta invece il trauma della prigionia nei lager? Come si torna alla vita dopo essere stati ad Auschwitz?

Mi chiedono spesso come mi sentissi durante la prigionia, e io rispondo sempre che non mi sentivo. Che non sentivo nulla. Voglio dire, ero svuotata, priva di emozioni e sentimenti. Mi svegliavo alle quattro del mattino senza sapere se fossi tornata viva la sera in baracca. Andavo a fare la doccia e non avevo idea di cosa potesse uscire da quei fori, se acqua o gas. L’ignoto era una costante. Ci fu una ragazza iugoslava che mi disse che saremmo state liberate entro la fine dell’inverno, ma l’inverno finì e noi eravamo ancora schiave. Poco dopo lei morì, e io sono convinta del fatto che sia stata questa sua aspettativa ad ucciderla. Vedi, era troppo focalizzata su un solo obiettivo, ma per sopravvivere non si può essere rigidi. Per sopravvivere bisogna essere flessibili, rinunciare al proprio concetto di perfezione.

Volevo chiederle, Dr. Edith…

Quanti anni hai David?

Ne ho ventisette.

Come mai un giovane uomo come te si interessa ad un passato tanto lontano e ad una signora tanto anziana?

Credo che non possiamo auspicare un futuro migliore, senza conoscere il nostro passato Dr. Edith. Credo che senza memoria, non c’è speranza. Né per noi, né per chi verrà dopo di noi.

Voglio dirti una cosa molto importante David. Proprio in questo momento, mentre noi parliamo così pacificamente, ci sono ancora dei genocidi in corso, ma mai nella storia dell’umanità quindici uomini ben istruiti si erano incontrati prima per decidere come assassinare nei forni crematori trentamila ebrei in un giorno solo. Questa era la soluzione finale, e io ne facevo parte.

Perché crede che i sopravvissuti sentano sempre il dovere, oltre che il bisogno, di raccontare la propria storia?

Perché ognuno di noi sente un debito irrisolto con il proprio passato, con il proprio papà e la propria mamma, morti senza lasciar traccia. E poi, perché ognuno di noi desidera sapere che non è sopravvissuto invano. Sarebbe un tale spreco. Per questo motivo amo parlare specialmente con i ragazzi, con voi giovani. Per questo motivo ammiro molto il tuo impegno David, perché dà senso al mio di impegno.

Dr. Edith, lei crede che il tempo curi davvero le ferite?

Non è il tempo a curar le ferite, ma ciò che ne faccio del mio tempo. Ogni giorno, quando mi sveglio la mattina e mi guardo allo specchio, io vedo tutta la mia esistenza racchiusa in un attimo solo. Da un lato l’alba sta sorgendo e dall’altro io devo prendere decisioni importanti. Capisci? È come se facessi parte di un lungo viaggio, con una meta ben definita, ed è compito mio fare qualunque cosa per raggiungerla.

 

Edith Eva Eger da giovane

 

Se fosse la psicologa della bambina che è stata, la psicologa di quella bambina imprigionata ad Auschwitz, cosa le direbbe?  

Direi a quella bambina che sta vivendo un momento difficile e inaspettato, ma che è tutto temporaneo. Pertanto, le direi che può farcela. Che può sopravvivere.

E quella bambina cosa le risponderebbe?

Mi direbbe “sì, ma…” e io la ammonirei immediatamente, senza permetterle di terminare la frase. Le direi che non si dice mai “sì, ma”. Le insegnerei che si dice “sì, e adesso che facciamo?”. Non possiamo aggrapparci sempre a ciò che doveva succedere, ma non è successo. Per sopravvivere bisogna essere pratici e vivere nel presente.

Non manca un po’ di empatia Dr. Edith? Non desidera abbracciare quella bambina?

Io non mi ritengo una vittima David. Hanno tentato di sterminarmi, sì, quindi sono vittima della storia, ma non lo sono di natura, certo non d’identità. Ritengo vera vittima soltanto chi si definisce tale, ma credo che nulla sia peggio del vittimismo. Dobbiamo smettere di lamentarci e cominciare a vivere.

È quindi capace di perdonare?

Certo non chi ha tentato di uccidermi, non ho i super poteri. Io sono egoista, penso soltanto alla mia felicità, e quindi perdono me stessa, per non essere capace di perdonare gli altri. Voglio vivere senza macigni. Voglio vivere.

Dr. Edith, come pensa che la nuova generazione possa acquisire le sue consapevolezze sulla vita, senza passare quella scuola della morte che è stata Auschwitz?

Quando sono arrivata ad Auschwitz, osservandomi intorno incredula, ho capito immediatamente che chi si avvicinava troppo ai nazisti, veniva finito brutalmente con un colpo di pistola. La seconda cosa che ho capito, vedendo ancor più incredula i cadaveri blu sparsi per terra, è che chi sfiorava i fili spinati veniva elettrizzato sul colpo. Ecco, Auschwitz mi ha insegnato cosa era giusto non fare. A voi, invece, la vita insegnerà cosa è giusto fare.

Come? Non capisco.

Questo è il bello della vita, che non c’è nulla da capire. Cancella il verbo “capire” dal tuo vocabolario. Secondo te io posso capire perché sono sopravvissuta? Certo che no. Cancella anche il verbo “credere” dal tuo vocabolario. Le persone sono troppo impegnate a credere o capire, che si dimenticano di vivere. Ecco, la vita va semplicemente vissuta. Anche nell’amore conta poco ciò che provi. Conta molto di più ciò che ne fai del tuo amore.

Lei parla spesso di amore. Quanto è stato importante nella sua vita?

Assolutamente fondamentale, non solo nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di me stessa. Tu ami te stesso David?

Dipende quando, e quanto, ma tendenzialmente direi di sì.

Molto bene, amare se stessi significa prendersi cura di se stessi, non significa essere narcisisti. Dobbiamo amare molto noi stessi.

Qual è la sua personale definizione della parola amore?

La capacità di lasciar andare. Il contrario dell’amore, infatti, non è l’odio, ma il rigetto. Anche in amore bisogna saper negoziare e scendere a compromessi, anche a costo di allontanarsi.

Cosa pensa di sapere lei della vita che noi mai potremo sapere?

Una volta una paziente mi disse che non riusciva a raccontarmi i suoi problemi, perché paragonati alla mia esperienza nel lager, le parevano del tutto insulsi. Io le spiegai che vi era un’unica differenza tra me e lei: io conoscevo il mio nemico, lei no. Io sapevo chi mi voleva morta, chi voleva gassarmi e poi bruciarmi. Io sapevo contro chi combattere nella mia mente, lei invece no. La mia paziente non riusciva a puntare il dito contro ciò che la faceva star male, contro il nemico con il quale doveva battersi. Questa è una qualità che caratterizza noi sopravvissuti: sappiamo sempre contro chi batterci. Sappiamo riconoscere il nemico e allontanarci dal pericolo.

Qual è il consiglio più importante che crede di aver mai dato ad un suo paziente?

Pensa prima di agire e poniti sempre tre domande: è importante? È necessario? È gentile? Se ciò che stai per fare o dire non è gentile, fermati e taci. Meglio il silenzio.

Qual è invece il consiglio più importante che le sia mai stato dato?

Un attimo prima di arrivare ad Auschwitz, mia madre mi disse: “Non so dove ci stanno portando e non so cosa succederà una volta arrivati. Ricordati solo una cosa Edith; possono prenderti tutto, ma non potranno mai prenderti ciò che hai di più importante, ovvero ciò che hai nella tua mente. Quello sarà sempre tuo”. Vorrei tornare indietro nel tempo e nello spazio fino ad arrivare ad Auschwitz, per poterla ringraziare. In quel momento non capii quanto quella frase fosse importante, cruciale nella mia vita. Solo anni dopo realizzai che grazie all’insegnamento della mia mamma, non solo sopravvissi, ma restai anche libera. Se non con il corpo, perlomeno con la mente.

Edith Eva Eger in una base militare in Israele


Viktor Frankl disse che non possiamo sopravvivere senza dare un significato alle nostre esistenze. È d’accordo con lui?

Un giorno Philip Zimbardo mi fece notare che tutti i libri importanti pubblicati sul tema della Memoria, erano stati scritti da sopravvissuti uomini. Mi disse che la percezione di una donna sopravvissuta ad Auschwitz doveva in qualche modo essere diversa da quella di un uomo, e aveva perfettamente ragione. Decisi così di scrivere un libro e sviluppare una mia teoria sull’argomento. Ad oggi credo che la mia voce in realtà non sia altro che quella di Viktor Frankl al femminile. Quindi ti direi che sì, sono d’accordo con lui, ma a differenza sua penso che, talvolta, sia la sofferenza a renderci più forti. Che non solo il significato, ma anche il dolore ci permetta di sopravvivere.

Qual è il significato che lei ha dato alla sua vita Dr. Edith? 

Suonerà banale, ma quando mi sveglio la mattina e realizzo di essere ancora viva, provo semplicemente un enorme senso di gratitudine. Sono felice di avere novantaquattro anni e di essere ancora così curiosa. Una curiosità che è nata ad Auschwitz, quando mi domandavo sempre cosa sarebbe successo il giorno successivo, e che non mi ha mai più abbandonata.

C’è stato un momento vissuto ad Auschwitz che l’ha segnata in modo particolare?

Un giorno il Dottor Mengele passò per la nostra baracca. Si disse annoiato e voleva sapere chi di noi potesse intrattenerlo. Una prigioniera mi spinse in avanti e lui mi squadrò per un attimo, poi mi ordinò di ballare. Non dimenticherò mai come tremavo. Ballai per lui e quando terminai, Mengele mi diede un pezzo di pane. Poi indicò alcune ragazze lì presenti, e le mandò al gas.

In quel momento, il pane significava vita.

Esatto, e io decisi di dividerlo con le mie compagne, proprio come se condividessi con loro la mia vita. Poi, durante la marcia della morte, loro mi ridiedero la vita indietro, quando io smisi di marciare e loro mi trascinarono a fatica, ancora grate di quel gesto compiuto dopo aver ballato per Mengele. Capisci? Se avessi pensato solo a me stessa, se fossi stata egoista, alla fine sarei morta. La prigionia mi ha insegnato a dare anche quando non avevo nulla da offrire.

Nel suo libro ha scritto che le esperienze dolorose sono i doni della nostra vita, perché?

Ad Auschwitz ho imparato a convertire la rabbia in empatia, tanto che oggi provo quasi dispiacere nei confronti di quei nazisti costretti a indossare le uniformi, costretti a odiare e a uccidere. Vedi, nella vita dobbiamo imparare tutti a tradurre le tragedie in opportunità. Auschwitz è stata per me un’opportunità di scoprire le mie forze interiori, poiché nulla mi è arrivato dall’esterno. Sempre e solo da dentro. Dentro di me. Oggi dico ai miei pazienti: trovate la felicità dentro di voi, poiché trovarla in qualcun altro vi renderà soltanto persone dipendenti, quindi depresse. Essere liberi, essere felici, essere vivi, è una scelta. E sai perché David? Perché se siamo capaci di pensare ad una cosa, siamo capaci anche di realizzarla. La nostra mente è l’unica a poter cambiare davvero le nostre vite.

Lo pensa davvero Dr. Edith? Non crede invece che sia tutta un’illusione? Che, in realtà, non siamo altro che schiavi del nostro destino?    

Un attimo prima della liberazione, nell’ultimo campo in cui mi trovai prigioniera, vidi dei compagni affamati divorare i cadaveri di altri compagni morti. In quel momento alzai gli occhi e mi rivolsi a Dio. Gli chiesi di avere pietà di me, di sfamarmi, di non permettermi di tuffarmi su quei cadaveri come gli altri, poiché non volevo fare la loro stessa fine. Poi, quando abbassai lo sguardo, vidi sotto i miei piedi un ciuffo d’erba. Lo raccolsi, lo misi in bocca e lasciai in pace i miei poveri compagni. Capisci David? Non è un’illusione. Possiamo sempre scegliere, sempre.

Prima le ho chiesto di essere, per un attimo, la psicologa di se stessa e della bambina che è stata. Ora vorrei chiederle di essere la mia psicologa e la psicologa della mia generazione. Cosa vorrebbe dire a questi ragazzi tanto mortificati dalla realtà che stanno vivendo? 

Di essere realistici, di non vivere di aspettative. Anch’io, quando non ottengo esattamente il risultato desiderato, spesso divento cinica. Io, invece, voglio essere sempre realistica. Non posso più fare la spaccata che facevo da ragazzina, è vero, ma posso ancora fare metà spaccata. Ecco che, arrivata a questa età, devo accettare di fare le cose al meglio per le mie capacità attuali. Devo vivere il presente. Così dovete fare anche voi, ragazzi miei. Dovete vivere il presente.