Simulacri e identità: parliamo di Saman

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Le narrazioni totalizzanti, ossia quei discorsi e quelle concezioni dei problemi del mondo che si basano sulla ripetizione ossessiva di un unico principio, vissuto come esclusivo e quindi definitivo, non solo sono false ma, cosa ancora peggiore, hanno il potere di condizionare l’agenda della discussione pubblica. Come tali, hanno anche un potente contenuto tossico. Poiché mettono in circolo delle mistificazioni che, per il fatto stesso di riprodursi in forma virale, sembrano invece avere una ragione loro propria. Inquinando invece il pensiero dei tanti.

Nell’età della comunicazione totale, della digitalizzazione, dei social network, dove tutti siamo (o ci riteniamo) interconnessi, non conta per davvero ciò che sia vero bensì il verosimile, ossia qualcosa che, quand’anche non venga riscontrato, sembra corrispondere ad una qualche idea condivisa di verità. Se poi così non dovesse essere, alla prova dei fatti, tanto peggio per la verità medesima. In quanto a vincere non è mai quest’ultima, assai scomoda e imprevedibile nelle sue tante manifestazioni, ma il bisogno di una versione ideologica dell’esistenza e dei tanti eventi che l’accompagnano.

È ideologia, infatti, il racconto della realtà che si impone sui fatti con una coerenza tale da distruggere i fatti medesimi, come un rullo compressore, il tutto a beneficio delle proprie convinzioni. Un simile atteggiamento, per capirci, è definito anche come «pregiudizio»: che è tale quando si riflette sull’opinione che si nutre rispetto a interi gruppi umani, non giudicati per quanto i singoli, tra di essi, vanno facendo, bensì per un’appartenenza a prescindere, che li denoterebbe e li connoterebbe aprioristicamente, vincolandone il comportamento pur astraendo dalla loro specifica personalità. Della serie: “gli italiani sono tutti mammoni e mafiosi”; “i tedeschi sono chini e proni all’autorità” ma anche “gli ebrei pensano solo al denaro” e così via.

Anche per questo la recente vicenda relativa a Saman Abbas, la ragazza pachistana prima sparita e ora irreperibile – poiché in tutta plausibilità assassinata da membri della famiglia – ci restituisce lo spaccato non tanto di una comunità dell’immigrazione, quella alla quale apparteneva, bensì della società ospite, ossia dell’Italia, nella quale risiedeva insieme ai famigliari. Il discorso, in questo come in altri casi, è sempre molto complicato. Nonché delicato: quanto meno poiché bisogna fare a meno di stereotipi generalizzanti. E proprio perché si vogliono evitare cliché, non si può andare a ricalco dei (pre)giudizi di senso comune.

Posta questa premessa, qualche parola occorre tuttavia pur dirla sul suo omicidio (a oggi ancora presunto, quanto meno al momento in cui scriviamo queste note). Ovvero, sui modi in cui è stato definito dalla pubblicistica italiana e, con essa, dalle forze politiche e, quindi, in immediato riflesso, dalla stessa opinione pubblica. In quanto le vicende delle migrazioni, e dei loro innumerevoli e imprevedibili effetti, costituiscono una cartina di tornasole della divisione tra tifoserie progressiste e conservatrici. Ancora una volta come se fossimo in un confronto tra ultras durante una partita di calcio. Se per i primi la dinamica è sempre la medesima, ovvero la generalizzazione positiva del «buon migrante-risorsa», per gli altri vale invece la generalizzazione negativa del «cattivo clandestino-minaccia».

Si tratta della contrapposizione tra distinti universi di pensiero, che tra di loro non comunicano. Due raffigurazioni, alla resa dei conti, tanto speculari – quindi compartecipi della stessa mistificazione – quanto false. Nel primo caso poiché fondate non su un riscontro oggettivo quanto su un principio moralistico (chi migra è un “proletario” bisognoso); nel secondo, in quanto basate sul delirio per cui dietro ogni processo migratorio ci sarebbe un disegno politico, di menti occulte, per egemonizzare l’«Occidente» e asservirlo a un qualche progetto politico e ideologico.

Nel primo caso il migrante è sempre un “buono”; nel secondo, è spesso un “pericolo”. Due menzogne per una sola farneticazione, quella per cui la storia – e con essa le vicende del presente – sia sempre e comunque riconducibile a un’esclusiva radice, quella che rimanda a una volontà precostituita.

Anche da ciò deriva quindi il fatto per cui il campo progressista abbia battuto il tasto, con un certo imbarazzo, della categoria del «femminicidio» (Saman è stata assassinata in ragione di una subcultura patriarcale, maschile, della quale il fondamentalismo islamista è solo una delle tante manifestazioni) mentre quello conservatore si è esercitato al tiro al bersaglio contro i «musulmani» (una sorta di insieme indistinto, che esiste per non prendere invece atto del pluralismo che comunque sussiste anche nelle società dove prevale la religione islamica). Nessun ecumenismo, tanto per capirci: Saman è senz’altro la vittima di una cultura al medesimo tempo patriarcale e tribale, dove la donna è un oggetto in possesso dei maschi dominanti. Da ciò, ovvero come adolescente che cercava invece di divincolarsi da una tale presa mortifera, ne è derivata la sua soppressione fisica.

Il punto, tuttavia, non è alzare il dito accusatore contro un’intera parte del mondo, definendola non solo “arretrata” e retrograda ma anche “criminale” tout court. Il punto è, piuttosto, di capire come le nostre disposizioni d’animo e di giudizio non riescano più a funzionare dinanzi a un mondo che sta cambiando, poiché l’inedito e l’arcaico vi si sommano e coesistono. L’età della modernità che stiamo vivendo, in quanto tale accelerata, radicale, enfatica, fatta quindi di bruschi mutamenti, non cancella alcunché delle vecchie disposizioni tribali. Anzi, a fronte della miscela tra popoli, collettività e culture che essa comporta, non di meno crea, nei tanti spaesati (a volte anche noi tra questi), il bisogno di tutelarsi costruendo dei recinti. Di pensiero e di condotte. Comprenderemo per davvero cosa comporti la truce eliminazione di Saman, che chiedeva solo di essere se stessa, quando oltre ad avere osservato gli “altri” da noi, sapremo capirci per le nostre contraddizioni di giudizio.
Beninteso, nessuna “autocritica”. Non è questo il punto. Semmai, qualora si giudichi quegli “altri” come diversi – e pertanto, almeno per alcuni aspetti, non all’altezza della sfida dei diritti civili e di cittadinanza – si sappia per parte di noi stessi cosa intendiamo quando ci appelliamo ad essi. Per noi medesimi. Quindi, per le tante Saman che vivono tra di noi e che ci chiedono non anatemi ideologici, ma concrete possibilità di emancipazione. Poiché il nodo non sono loro stesse ma noi, che ci riflettiamo nelle loro immagini, credendoci liberi quando invece siamo spesso schiavi dei nostri luoghi comuni.