Lo stato delle cose, il crocifisso nei luoghi pubblici e noi.

Opinioni

Non neces- sariamente i momenti più difficili sono contras- segnati da fatti drammatici. Quanto di peggio ci attende rischia invece di crescere nell’indifferenza, nella nostra incapacità di mettere a fuoco i problemi reali e di reagire di conseguenza.
Se noi, in quanto ebrei italiani, dormiamo, o talvolta ci perdiamo in ridicole dispute da cortile, il mondo circostante, come dimostrano molte recenti vicende, resta invece sveglio. E va per la sua strada.
Vorrei ospitare, nel primo spazio che questa testata sottopone all’attenzione del lettore, l’intervento che segue.
Firmato da un giurista illustre come Giulio Disegni e dedicato al delicatissimo problema dell’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, solo apparentemente riguarda un ristretto gruppo di specialisti. Deve invece interessare tutti i cittadini consapevoli.
Al di là dell’estrema importanza del tema specifico, infatti, in gioco c’è il nostro ruolo di minoranza.
Chi siamo, chi vogliamo essere? Solo dei piazzisti di ideologie altrui impegnati a distribuire affidavit a destra e a sinistra, o piuttosto il sigillo di garanzia di cui una democrazia laica e avanzata non può fare a meno?
In una stagione in cui il rombo delle chiacchiere rischia di sommergerci, l’intervento dell’avvocato Disegni ci fa pensare, ci mette di fronte ai fatti concreti. Ci sollecita a dire la nostra. A noi la scelta.

Guido Vitale (direttore@mosaico-cem.it)

Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha riportato a galla il problema da tempo dibattuto e mai sopito nella società civile e nelle aule di giustizia sull’esposizione del crocifisso nei locali pubblici, scuole, seggi elettorali, tribunali o ospedali che siano. Problema che, se poco pare importare al mondo cattolico (anche se, accanto a molte prese di posizione in favore del crocifisso appeso, attacchi arrivano pure da quel mondo), molto interessa al mondo laico, ai non credenti, ai valdesi, agli ebrei, ai musulmani, a coloro in genere a cui sta a cuore che in una società come la nostra, multiculturale e multietnica e soprattutto improntata come dovrebbe essere al principio di laicità, un simbolo dichiaratamente appartenente alla cristianità non assurga a simbolo privilegiato per esposizioni privilegiate, o uniche, in locali o istituzioni pubbliche.
A lasciar interdetti ebrei, laici, valdesi e musulmani ci ha pensato dunque nei mesi scorsi il Consiglio di Stato con la sentenza n. 556 del 13.1.06, con la quale il massimo organo giurisdizionale amministrativo ha sorprendentemente decretato che il crocifisso deve restare nelle aule scolastiche non perchè sia un “arredo” o un “oggetto di culto”, ma perché “è un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili” (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti) che hanno un’origine religiosa, ma “che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”.
La storia dell’esposizione del crocifisso parte da lontano e, per capire meglio cosa oggi sta succedendo, val la pena di ripercorrere brevemente talune delle tappe più significative e recenti che hanno segnato il cammino della impervia battaglia per farlo rimuovere dai luoghi pubblici.
Nel 1988 il Consiglio di Stato, in un Parere che aveva fatto molto discutere i fautori della liceità dell’esposizione e i sostenitori della opposta posizione, schierati a strenua tutela della “laicità dello Stato”, aveva ritenuto in vigore le disposizioni sull’esposizione del crocifisso contenute nei Regi decreti risalenti agli anni ’20, Quella laicità che sarà poi riconosciuta dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 203 del 1989, come principio supremo dell’ordinamento italiano e dalla Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 439 del 2000, che ha assolto uno scrutatore ebreo, Marcello Montagnana, rifiutatosi di prestare l’ufficio cui era stato chiamato, perché nel seggio presso il quale era stato nominato era presente un crocifisso.
Simili precedenti facevano dunque ben sperare anche per la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, il che non è accaduto, tanto che alcuni genitori di studenti non cattolici avevano iniziato una battaglia per la rimozione del simbolo dalle aule. In particolare, nel 2002, in una scuola di Abano Terme fu proposta la rimozione, ma posta in votazione, venne approvata una delibera che lasciava esposto il crocifisso.
La decisione fu impugnata da un genitore al Tribunale Amministrativo Regionale Veneto, per violazione dei principi d’imparzialità e laicità dello Stato, in relazione all’art. 3 della Costituzione, che garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini, e all’art. 19, che riconosce libertà di professare la propria fede religiosa.

Il ragionamento del TAR Veneto era a ben vedere incoraggiante: diversamente da quanto avviene per l’insegnamento della religione, che gli studenti possono scegliere, la presenza del crocifisso era da considerarsi imposta a studenti ed insegnanti e poichè la norma che prescrive tale obbligo delinea una disciplina di favore per la religione cristiana, attribuendole una posizione di privilegio, il TAR ritenne non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con il principio di laicità dello Stato, degli artt. 159 e 190 del d. lgs. 297 del1994, come specificati dall’art. 119 del r.d. 1297 del1928 e dall’art. 118 del r.d. 965 del 1924, nella parte in cui includono il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche e dell’art. 676 del d. lgs. 297 del1994, nella parte in cui conferma la vigenza delle disposizioni di cui all’art. 119 del r.d.1297 del 1928 ed all’art. 118 del r.d. 965 del 1924.
Con l’ordinanza n. 56 del 2004 il TAR Veneto rimetteva dunque gli atti alla Corte Costituzionale per il giudizio di legittimità costituzionale. La Corte si pose anzitutto il problema della costituzionalità delle disposizioni regolamentari, da cui discende l’obbligo di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, suscettibili, secondo il TAR, di controllo indiretto, tanto che aveva sollevato la mancanza di ogni base costituzionale per poter fare del crocifisso un simbolo dell’unità della nazione al pari della bandiera.

Occorre un breve passo indietro per capire com’è regolata la vicenda dei crocifissi all’interno del mondo scolastico, la cui esposizione venne disposta con una circolare che faceva riferimento alla legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione dello Stato. Con il R. D. 2185 del 1923 l’insegnamento della religione cattolica diventava fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica e dunque il crocefisso era parte di quell’insegnamento diffuso della religione cattolica che permea i programmi scolastici. Tale orientamento rimase anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Un significativo intervento si ebbe con l’art. 30 della legge 641 del 1967 e con la circolare 361 del 1967, Edilizia e arredamento di scuole dell’obbligo sulla richiesta di contributi per provvedere alla fornitura degli arredi scolastici tra cui il crocefisso.
La preghiera scompare con i nuovi programmi della scuola elementare e della scuola media unica; avrebbero dovuto scomparire anche i crocifissi, il che avviene in molte delle scuole di nuova istituzione, ma la previsione rimane. Ma il Concordato del 1984 non prevede più l’insegnamento diffuso e le leggi relative alle Intese con i valdesi e con gli ebrei vietano espressamente l’insegnamento diffuso della religione cattolica, senza contare che viene abrogato il principio della religione di Stato.
Accade così che le norme regolamentari non sono abrogate, ma cadono in desuetudine, in quanto non sussistono più le basi normative che rendevano possibile imporre attraverso un provvedimento amministrativo l’esposizione di un simbolo religioso, il crocifisso, strumentale a quel tipo d’insegnamento.

Tornando alla decisione della Corte Costituzionale, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è dunque prescritta, come s’è accennato, da due disposizioni, l’art. 118 del r.d. 965 del 1924, sull’ordinamento interno degli istituti di istruzione media e l’art. 119 del r.d. 1297 del 1928, sugli istituti di istruzione elementare. In particolare, l’art. 118 del r.d. 965/24 dispone che ogni istituto d’istruzione media «ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re», mentre l’art. 119 del r.d. 1297/28 stabilisce che gli arredi delle classi sono elencati in una tabella, che include il crocifisso per ciascuna classe elementare.
Ma il r.d. 965/24 e il r.d. 1297/28 costituiscono fonti regolamentari, mentre, nei rispettivi preamboli, vengono richiamati atti di grado legislativo: per verificare la rilevanza della questione sotto il profilo della legittimità costituzionale, attesa l’inammissibilità del controllo dei regolamenti da parte della Corte Costituzionale, il TAR Veneto aveva ritenuto doversi procedere al controllo indiretto che si ha nel caso in cui una disposizione di legge «trova applicazione attraverso le specificazioni espresse dalla normativa regolamentare, i cui contenuti integrano il precetto della norma primaria».
Il ragionamento del giudice amministrativo era fondato sul fatto che, se il crocifisso costituisce un arredo scolastico, l’art. 159 del d. lgs. 297/94 dispone che spetta ai Comuni provvedere «alle spese necessarie per 1’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico e degli arredi scolastici»; per la scuola media, l’art. 190 del d. lgs. 297/94 dispone che i Comuni sono tenuti a fornire, oltre ai locali, l’arredamento. La norma, dunque, imporrebbe che nelle aule delle scuole elementari e medie sia apposto un simbolo, che mantiene un univoco significato confessionale.

Ed ecco la decisione che ha costituito la premessa per la pronuncia del Consiglio di Stato. La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 389 del 13 dicembre 2004, dichiara che l’impugnazione delle disposizioni del testo unico è il frutto di un improprio trasferimento su disposizioni di rango legislativo di una questione di legittimità concernente le norme regolamentari, prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale.
La questione sollevata dal TAR Veneto è stata pertanto dichiarata inammissibile, ma nulla è stato deciso circa l’obbligo di esposizione del crocifisso. E secondo la Corte Costituzionale, non si può certo ricavare l’obbligo di affissione del crocifisso dalle norme regolamentari del ’24 e del ’28.
La vicenda è così tornata al TAR Veneto, che ha respinto il ricorso del genitore dello studente nella cui aula campeggia il crocifisso e in sede di appello è stata finalmente ora decisa dal Consiglio di Stato, con una pronuncia a dir poco inquietante.
Si tratta in sostanza di verificare se l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche fosse lesiva o meno delle norme fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, che danno forma e sostanza al principio di laicità.
Ma per i giudici il significato del crocifisso varierebbe a seconda dei casi e dei luoghi: “è evidente – si dice – che il crocifisso è esso stesso un simbolo che può assumere diversi significati e servire per intenti diversi; innanzitutto per il luogo in cui è posto”. Se dunque il crocifisso appare in un luogo di culto (cattolico), esso “è propriamente ed esclusivamente un simbolo religioso”, mentre “in una sede non religiosa, come la scuola, destinata all’educazione dei giovani, il crocifisso potrà ancora rivestire per i credenti i suaccennati valori religiosi, ma per credenti e non credenti la sua esposizione sarà giustificata ed assumerà un significato non discriminatorio sotto il profilo religioso, se esso è in grado di rappresentare e di richiamare in forma sintetica immediatamente percepibile ed intuibile (al pari di ogni simbolo), valori civilmente rilevanti e segnatamente quei valori che soggiacciono ed ispirano il nostro ordine costituzionale, fondamento del nostro convivere civile”.
Il crocifisso assurgerebbe dunque, secondo la sconcertante decisione, a simbolo di laicità, rappresentativo degli alti valori cui lo Stato e la Carta Costituzionale si ispirano. A tanto – va dato atto ai giudici del Consiglio di Stato – non si era davvero mai giunti.
È di tutta evidenza che la tesi non solo non può esser accettata da chiunque, credente o non credente, ebreo o ateo, ritiene che i simboli religiosi non possano e non debbano esser apposti all’interno delle pubbliche istituzioni, ma deve costituire un forte impulso a non abbassare la guardia su una questione fondamentale per l’assetto democratico di una società civile che nei valori del laicismo e dell’uguaglianza tra le religioni dovrebbe trovare uno dei suoi fondamenti cardine.
Ebrei e valdesi non dovrebbero ora perdere alcuna occasione per ricordare allo Stato le norme approvate nelle rispettive Intese, dirette a far valere i principi dell’uguaglianza e la pari dignità tra le confessioni religiose, con il conseguente il divieto di ogni forma di privilegio, che passa anche attraverso l’esposizione di un simbolo dai precisi connotati e richiami religiosi di una singola confessione.