L’immagine di noi

Opinioni

Le votazioni per il rinnovo del Consiglio della Comunità ebraica di Milano e dei delegati al congresso dell’Unione delle comunità ebraiche italiane sono ormai dietro le nostre spalle assieme alla massa delle consultazioni elettorali che ci sono piovute addosso in queste ultime settimane. Una nuova Giunta si è formata a Milano e ha già cominciato il suo lavoro. Sarebbe il momento giusto per parlare, prima della pausa estiva, di programmi, di prospettive, di scadenze. I problemi da gestire sono tanti, le prospettive e le speranze che chi si accinge a governare la comunità ha suscitato sono numerose.
Eppure, prima di rimboccarsi le maniche, mi sembra sia utile fare qualche considerazione su un argomento solo apparentemente marginale. Una certa sensazione di imbarazzo, direi quasi di straniamento, si sta facendo strada fra gli ebrei italiani. Sta nell’aria, anche se è ancora difficile da descrivere, da definire con precisione.
Vorrei provarci con le parole che seguono, riferendovi un piccolo episodio che mi ha colpito. Pochi giorni prima del voto ho intervistato per Mosaico i rappresentanti delle tre liste in competizione alle elezioni. Per favorire una maggiore conoscenza dei loro programmi e delle loro intenzioni, ai candidati sono state riservate le stesse domande ed è stato messo lo stesso spazio a disposizione. Spero che il risultato, apparso su questa pagine solo poche settimane fa, si sia dimostrato interessante per il lettore. Certamente lo è stato per il sottoscritto.
L’occasione di parlare in rapida successione con diverse persone, misurare il loro grado di motivazione, la loro sensibilità, la loro disponibilità, ha rappresentato per me un segnale molto incoraggiante. Se da queste persone, da tutti gli altri che vogliono rappresentare, dai loro programmi, dai loro impegni, emergerà il governo e l’opposizione della comunità di domani, c’è un grande motivo di speranza. Se questo è il patrimonio che abbiamo da offrire a noi stessi e alla società che ci circonda, allora abbiamo ancora molto da dire. Non siamo solo una microscopica, trascurabile minoranza nell’ambito di una società in rapidissima evoluzione verso il modello multietnico. Siamo significativi. Siamo importanti. Siamo all’altezza dei nostri ideali e della nostra storia.

Quando ho terminato di scrivere le interviste e di combinarle assieme mi sentivo soddisfatto. Non tanto del risultato del mio lavoro, che in ogni caso spero fosse soddisfacente, ma piuttosto della ricchezza di contenuti che gli intervistati erano riusciti ad esprimere.
Poi mi sono preso un breve momento di riposo. E ho aperto i giornali del mattino. Anche lì, nelle cronache nazionali e nelle cronache locali, si parlava di comunità, si parlava di elezioni. Eppure quella che emergeva dalle pagine non era la stessa realtà. Sembravano storie di un altro pianeta. Ne traspariva una comunità divisa, arrogante, litigiosa, faziosa. E ne uscivano figure pronte a ferire la dignità altrui pur di conquistare una briciola di notorietà, strappare un consenso. I miasmi di una campagna elettorale violenta e settaria erano penetrati fino in casa nostra? La rissa delle fazioni e dei partiti aveva finito per coinvolgerci? E’ stato allora che mi sono reso conto di quanto queste due realtà, quella da me sperimentata personalmente e quella riportata dai giornali, fossero inconciliabili, non potessero coesistere.
Ho continuato a sfogliare i giornali anche nei giorni seguenti, passando da una stupefazione all’altra. Un grande scrittore francese ha detto impietosamente che le cameriere vedono tutto con la forma del buco della serratura. Non so se questo renda giustizia alla larghezza di vedute delle cameriere, certo rende bene l’idea della maniera di lavorare di molti giornalisti italiani. Tranne alcune lodevoli eccezioni (credo sia doveroso segnalare la serietà di Rossella Minotti del Giorno) si è caduti dalla padella della più rozza banalità alla brace della malafede senza scusanti.
Per rientrare nell’orizzonte fatto a forma di buco della serratura il Consiglio che gli ebrei milanesi hanno eletto sarebbe di destra, sbilanciato sulle componenti ultraortodosse, diviso da odi profondi, più o meno amico di Prodi, di Berlusconi, di Fini, di Diliberto, composto da personalità inconciliabili e perennemente in conflitto fra di loro. I pareri sono stati spesso sollecitati ai personaggi più improbabili, spesso quelli che meno vivono la comunità reale. I politicanti frustrati non potevano mancare. E nemmeno i cabarettisti, che fra una barzelletta e l’altra sono sempre pronti a schierarsi dalla parte giusta, se tira aria di campagna elettorale. Ci mancavano solo i nani e le ballerine. Ma se li lasciamo fare, si organizzeranno.

Fatto sta che è venuto il momento di decidere. Ci sentiamo tanto divisi? Questi odi viscerali che ci vengono attribuiti sono davvero nostri? E’ realistico pensare che la rissa politica italiana condizioni in questo modo così grave la nostra visione della comunità? Siamo tutti dei comizianti che si lasciano comandare a bacchetta per fare da paravento a questo o a quel partito politico? Siamo o non siamo capaci di dare con le nostre scelte e le nostre competenze un governo credibile e un’opposizione credibile agli ebrei italiani?
Se ci vediamo riflessi in uno specchio distorto, se i mezzi di comunicazione di massa non rendono giustizia alla nostra immagine, allora c’è un problema da affrontare. Un problema che richiede tutta la nostra attenzione.
Noi, infatti, siamo una minoranza troppo esigua per essere percepita dall’insieme della società solo attraverso le relazioni personali che si sviluppano nella vita concreta. Siamo destinati ad essere conosciuti ed interpretati dalla massa solo attraverso l’immagine riflessa dai mezzi di comunicazione. Da come ci raccontano può dipendere molta parte del futuro nostro e delle nostre istituzioni. Può essere influenzato il tasso di antisemitismo presente in una società, può essere condizionata la nostra capacità di raccogliere fondi e sponsorizzazioni.
Allora sarà il caso di decidere. Se vogliamo lasciarci raccontare come fa comodo agli altri, o come fa comodo a qualcuno, o se invece vogliamo provare a raccontare noi stessi come realmente siamo. Se vogliamo essere utenti vigili e consapevoli dei mezzi di comunicazione di massa o se vogliamo vivere nella venerazione di quei brandelli di notorietà che elargiscono a caro prezzo.
Per combattere la nostra battaglia di un’informazione corretta ed efficace, per infrangere lo specchio deformante di cui siamo prigionieri, non abbiamo necessariamente da alzare la voce. Ci basta rafforzare i mezzi di comunicazione che gli ebrei italiani si sono dati. Fare progetti perché crescano liberi e autorevoli e costituiscano un contrappeso alle distorsioni dei media e una preziosa fonte di documentazione, uno spazio di dibattito e di ragionamento. Perché raccontino la vita reale, i problemi effettivi e le vere speranze che gli ebrei italiani esprimono giorno dopo giorno.