Liliana Segre in Senato

I manganelli mediatici non sono meno dolorosi (e pericolosi) del bastone che colpisce il tessuto connettivo della società

Opinioni

di Claudio Vercelli

[Storia e controstorie] Si rimane francamente allibiti. Benvenuti nel mondo capovolto, dove la celebrazione della “fine delle ideologie” si fa ideologia essa stessa, negando il principio medesimo di realtà.

Il razzismo non è razzismo, l’offesa è solo umorismo malinteso, lo scherno è gabellato come scherzo, l’insulto è derubricato ad ironia. In fondo, quel che più sconcerta, in certe vicende pubbliche, nelle quali poi molte persone che poco o nulla sanno del merito vengono invece trascinate (e legittimate) nel formulare un giudizio per il quale non hanno nessuna preparazione, non è tanto il ripetersi delle provocazioni di chi vive d’abitudine d’esse, ma la livorosità con la quale tanti altri si esprimono, come se fossero un fiume in piena, destinato a rompere gli argini. L’oggetto di questa riflessione è la Commissione senatoriale voluta da Liliana Segre, prodotto di una gestazione di lungo periodo, che era già in corso la legislatura precedente. Il merito di un’assemblea di parlamentari, la cui funzione sarà essenzialmente di studio, giudizio, valutazione di una serie di fenomeni sociali, tuttavia trascolora completamente dinanzi al rincorrersi di affermazioni e di roboanti prese di posizioni seguite da repliche tanto implacabili quanto intolleranti, di botte e risposte, anzi di sberle e controsberle, almeno su un piano figurato. Non c’è discussione e confronto alcuno in questi atteggiamenti ma solo un bisogno di rivaleggiare, contrapponendosi gli uni agli altri.

Poiché è questo il vero fuoco della lunga fila di scempiaggini, al limite dell’oscenità e dell’immoralità, proferite contro la senatrice. La quale è stata accusata, nell’ordine, di: strumentalizzare; di farsi strumentalizzare; di essere ingenua; di recitare la parte dell’ingenua; di essere scaltra – magari come “lo sanno essere gli ebrei”?; di non capire nulla di politica; di capire tutto, fingendosi invece ignorante in materia, e quant’altro ancora: anche e soprattutto di volere favorire l’immigrazione incontrollata, così come di mischiare l’odio per gli ebrei con la legittima ripulsa verso i musulmani, tagliagole patentati e così via. In tutto ciò, quello che rimane, è il bisogno – ma guarda un po’ – di esprimersi proprio con quell’odio, l’hate speech, che la Commissione dovrebbe invece fare oggetto di una valutazione di impatto sociale e politico. Basterebbe questo riscontro per dire che sì, effettivamente è bene che il nostro pencolante Parlamento, le cui legislature sembrano essere sempre appese ad un filo, si adoperi in tal senso. Poiché si tratta di uno tsunami che non accenna a fermarsi, anzi, che sembra gonfiarsi sempre di più. Con il rischio di travolgere, prima o poi, anche coloro che credono di potersene in qualche modo avvantaggiare.

Il grado zero della politica, il suo annientamento totale sta proprio in questa deriva collettiva, alla quale, evidentemente, non si può porre rimedio solo con gli inviti alla ragionevolezza, alla moderazione e alla misura. Sono lance senza punta. Va da sé che sarebbe illusorio, se non velleitario, pensare di fronteggiare un fenomeno epocale – ovvero la caduta dei freni inibitori dinanzi al vuoto di qualsiasi progetto politico per il futuro, il ricorso a manetta all’invettiva, l’abruttimento sistematico attraverso il linguaggio dei cavernicoli nobilitato ad espressione della “sana rabbia del popolo” – con il solo strumento parlamentare. Così come è lecito interrogarsi su cosa si intenda con il ricorso alla parola «odio», tanto più dal momento che si entra nel campo della valutazioni di ordine politico, istituzionale e quindi legislativo. Peraltro, la stessa Commissione dovrebbe contribuire a definire i contorni di quello che non è uno psicodramma linguistico ma un fenomeno di impatto sistematico, destinato ad inquinare le relazioni sociali, non solo quelle di natura virtuale. Non si parte quindi sapendo già che cosa si dovrà “condannare” ma piuttosto ponendosi il problema di identificare, con il proprio lavoro, i contenuti e i significati di una deriva collettiva. Parlare a prescindere di censura è come dire: ci sta bene che le cose continuino così come sono, anche se a parole si depreca. Naturalmente a danno già verificatosi. Il bamboleggiarsi di certuni tra i rimandi alla «sinistra» così come alla «destra», partendo dal presupposto che una cosa – non importa quale – sia più o meno accettabile se letta secondo il criterio della maggiore o minore vicinanza al proprio posizionamento politico, c’entra, in questo caso, come i proverbiali cavoli a merenda.

Così come le legittime e necessarie distinzioni analitiche tra antisemitismo e razzismo, tra genocidio e persecuzioni, tra violenze diverse in epoche storiche differenti, rischiano di rivelare la sgradevole natura di pretesti quand’esse vengono invece utilizzate per omettere le condanne contro il ricorso alla forza illegittima e alla violenza brutale nei confronti di alcuni dei più deboli. I distinguo capziosi, che si fanno nei confronti di certuni sono parte di quell’odio che distrugge il tessuto culturale, civile, morale e sociale che è la precondizione per continuare ad essere liberi e sicuri del diritto e della giustizia. Un manganello mediatico a volte non è meno doloroso (e pericoloso) del bastone con il quale si prende a legnate il cane alla catena, che non può sfuggire ai colpi di quel padrone che si sogna suo sovrano assoluto, sapendo che non potrà in alcun modo sfuggirgli.