Che cos’è la conversione? La questione del ghiur e della teshuvà nel Novecento ebraico

Opinioni

di Ugo Volli

ChalierAl contrario di quanto accade nel cristianesimo e nell’islam, la tradizione di Israele nutre molta diffidenza per le conversioni, almeno a partire dai tempi del Talmud: la ragione è che essere ebreo significa far parte di un popolo, vivere in una certa maniera, non solo confessare una certa fede. Ed entrare in un popolo è assai più difficile che accettare una teologia. Ma la parola “conversione” non traduce solo l’ebraico ”ghiur”, cioè entrare nel popolo di Israele, ma anche teshuvà, il “ritorno” o pentimento degli errori, che è al cuore dell’esperienza religiosa ebraica. Ce lo ricorda un libro bello e difficile di Catherine Chalier, allieva del filosofo Emmanuel Levinas e autrice di studi molto apprezzati come quelli sugli angeli nei racconti biblici, sull’alfabeto ebraico, sulle matriarche. Chalier analizza innanzitutto le teorie della conversione nella filosofia classica greca, nel cristianesimo e nell’ebraismo, sottolineandone la dimensione spirituale di mutamento d’animo, di “lavoro su di sé”, più che quella sociologica o giuridica del cambiamento di appartenenza.

Ma la parte più interessante, e per certi versi più inquietante, è quella di cinque casi eminenti di conversione fra grandi personalità filosofiche del Novecento. C’è Thomas Merton, che si converte dall’anglicanesimo al cattolicesimo, colpito dalla mistica bellezza di Roma. C’è Franz Rosenzweig, tentato dalla conversione al cristianesimo, che partecipando a quel che pensava dovesse essere il suo ultimo Kippur, capisce finalmente la ricchezza spirituale delle sue origini e vi fa ritorno, diventando un grande maestro di ebraismo. C’è Etty Hillesum, studentessa geniale dalla ricca e sincretica spiritualità che muore in mezzo al suo popolo ad Auschwitz senza perdere la sua fede. C’è il terribile antisemitismo di Simone Weil, manichea e antisemita viscerale, che non riesce neppure a convertirsi a un cattolicesimo che le appare sospetto di ebraismo. C’è Bergson, che aderisce spiritualmente al cristianesimo per amore del misticismo, ma non si converte solo per solidarietà con i suoi fratelli ebrei minacciati dal nazismo. Le interpretazioni di Chalier sono molto, forse troppo, simpatetiche con tali avventure interreligiose, ma da queste storie emerge il grande problema spirituale e filosofico, non solo sociologico, dell’emorragia ebraica verso il cristianesimo prima della Shoah e prima della nascita dello Stato di Israele.

Catherine Chalier,
“Desiderio di conversione”, Giuntina, Firenze, pp. 249, € 16