Antisemitismo: attenzione ai numeri

di Ilaria Myr

Betti_GuettaI sondaggi sull’antisemitismo si sono moltiplicati esponenzialmente, tanto che non c’è settimana in cui non ve ne sia uno, su un Paese specifico o sulla popolazione europea in generale. E quasi sempre le fotografie che ne emergono sono tutt’altro che consolanti. Si pensi solo a quello pubblicato a gennaio dal Campaign Against Antisemitism, da cui emergeva che nel Regno Unito il 45% della popolazione è antisemita. Di fronte a una tale proliferazione, sorgono spontanee alcune domande: sono davvero tutti affidabili? E quando si deve considerarli effettivamente tali? «L’impressione è che oggi l’antisemitismo sia un tema che “tira” e che quindi ci si scateni a dare numeri e fare sondaggi – spiega Betti Guetta, esperta sociologa, responsabile dell’Osservatorio Antisemitismo del CDEC -. Non sempre però si tratta di lavori svolti in modo corretto e professionale: chi li legge deve sempre avere in mente che stiamo parlando di una materia molto complessa, in cui coesistono diverse questioni da non sottovalutare».
Un primo ordine di problemi, di tipo teorico-concettuale, riguarda che cosa si intende per antisemitismo, quali indicatori vengono utilizzati e quali domande vengono poste ai fini del sondaggio. Vi sono poi aspetti metodologici, che si riferiscono a chi ha svolto il sondaggio, con quali modalità (interviste telefoniche, online, per strada) e parametri (campione coinvolto). «Se, ad esempio, un sondaggio viene svolto online, ci sarà senza dubbio una parte della popolazione, quella meno avvezza alle nuove tecnologie, che sarà meno rappresentata – continua Guetta -. Troppo spesso, poi, si leggono lavori che utilizzano parametri oggi desueti, come quelli comuni negli Stati Uniti negli anni ’50 riguardo alla discriminazione dei neri, tipo “cosa penserebbe se avesse un vicino nero”: che non hanno senso se applicati in Italia in riferimento alla popolazione ebraica. E poi c’è una grande diffusione di ricerche svolte da realtà non specializzate in sondaggistica: tanto che quelli che vengono chiamati sondaggi spesso sono invece solo inchieste, su campioni ristretti o poco rappresentativi. Questo perché svolgere sondaggi fatti bene ha un costo alto, che non tutti possono sostenere: spesso le domande relative all’antisemitismo vengono inserite in ricerche molto più ampie, da cui poi vengono estrapolate, senza avere però un reale valore di sondaggio».
Sia chiaro: non si vuole dire che tutti i sondaggi non siano affidabili e interessanti: “La mappa della tolleranza”, svolta da Vox – Osservatorio italiano sui diritti, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, La Sapienza di Roma e l’Università Aldo Moro di Bari, è secondo Guetta un esempio di ricerca ben circoscritta, che dà dati interessanti sulla circolazione dei pregiudizi su Twitter. Dall’analisi di 2 milioni di tweet l’indagine mira a identificare le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa, secondo cinque gruppi – donne, omosessuali, immigrati, diversamente abili, ebrei. Allo stesso modo, non si vuole dire che l’antisemitismo non sia un problema e che non sia in crescita anche in Italia: lo stesso Osservatorio Antisemitismo, da quando ha lanciato con l’Ucei l’Antenna Antisemitismo – che permette a chiunque di segnalare episodi di cui è vittima – rileva un incremento del numero di eventi antisemiti. «Non voglio assolutamente sottovalutare il fenomeno – precisa Guetta -. Penso però che i sondaggi debbano essere interpretati in maniera più critica rispetto a quello che si fa oggi: soprattutto, sono convinta che le risposte non date dagli intervistati su una materia come l’antisemitismo siano altrettanto eloquenti di quelle esplicite. È su questa “zona grigia” che si deve maggiormente indagare, perché è proprio l’area del non detto a doverci preoccupare».

Ma come capire quando un sondaggio è davvero affidabile? Quali aspetti tenere presente, oggi che i media non hanno più l’obbligo – che avevano invece negli anni ’80 – di pubblicare una fiche metodologica del sondaggio?
«Innanzitutto bisogna informarsi su chi ha commissionato la ricerca e su chi l’ha eseguita – spiega Betti Guetta -, cercando di capirne professionalità e specializzazione. Poi bisogna avere ben chiaro quale metodo viene utilizzato e quanto è ampio e rappresentativo il campione di intervistati. Ci vuole lo stesso senso critico che ti fa capire se quella pubblicata su Facebook è una “bufala” o meno».
Nell’era della velocità, delle informazioni “cotte e mangiate”, senza il vaglio di un pensiero attento e critico, diventa dunque fondamentale recuperare il ragionamento e andare oltre il singolo numero, che può da solo fornire informazioni scorrette e fomentare l’allarmismo. «Noi come ebrei dobbiamo cautelarci contro questo pericolo, cercando di non rilanciare anche sui nostri media le notizie dubbie – conclude Guetta -. Altrimenti facciamo esattamente il gioco di chi vuole seminare il terrore».