La tigre sotto la pelle

Libri

Un mondo di sentimenti forti e terribili.

Da quando apparve in italiano dieci anni fa Yossl Rakover si rivolge a Dio è stato fra i testi di maggior successo della letteratura ebraica sulla Shoà: portato a teatro due o tre volte, ampiamente recensito, citato talvolta come un “documento” della resistenza del Ghetto di Varsavia, preso a esempio del tormento della cultura ebraica di fronte al genocidio. La presentazione di Adelphi, che parlava del racconto come di una “leggenda” e di una “disputa altamente borgesiana” sull’autenticità del testo, non aiutava a inquadrarlo correttamente, anche se ne sottolineava l’importanza con un piccolo saggio di grande densità firmato da Emmanuel Lévinas che lo indicava a esempio della concezione ebraica nel rapporto col divino. Un paradosso, visto che Yossl Rakover è raccontato come un combattente del ghetto che “crede nel Dio di Israele anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui”, un ex hassid di Ger che esprime tutta la delusione di ciò che vive come un tradimento divino continuando a credere “contro” il silenzio divino e combattendo i tedeschi fino alla morte.

Ora Bollati Boringhieri ripubblica questo testo in una versione più completa e lo inserisce nell’edizione originale americana dov’era accompagnato da una decina di altri racconti, tutti ambientati fra la Shoà e l’istituzione dello Stato di Israele. Sono testi molto impressionanti, con un che di racconto gotico. C’è per esempio il rabbino ucciso da un ufficiale tedesco che lo maledice e gli riappare sotto la forma di un occhio rosso di sangue che lo perseguita rendendogli impossibile insieme la vita e la morte. C’è un ebreo polacco che ha perso tutta la famiglia nei bombardamenti nazisti e da allora vive solo per seppellire i correligionari uccisi, finché i morti non lo respingono perché ha accettato di seppellire anche un aguzzino. C’è una madre che diventa incendiaria per vendetta, portandosi sul petto le ceneri del suo bambino ammazzato dai tedeschi. C’è un altro bambino sepolto vivo da un gerarca nazista che si ostina a far emergere la sua mano ammonitrice nonostante tutta la terra che gli scaricano sopra. C’è un ebreo olandese che va volontario a Treblinka per unirsi alla famiglia che ha già ucciso per sottrarla al campo. C’è una donna reduce dai campi, violentata dagli americani “liberatori”, ricacciata in mare dagli inglesi che dominano la terra santa, la quale sceglie la lotta clandestina e il terrorismo. C’è un ebreo che si unisce alla resistenza in Polonia e combatte, superando incredibili pericoli aiutato dalla visione della protezione di sua madre, che gli appare in sogno; ma arrivato in Israele muore stupidamente in un incidente stradale. C’è un rumeno che in un pogrom violenta una donna ebrea e anni dopo si innamora della figlia ignara, che lo ricambia, fino a impazzire quando capisce.

E’ un mondo di sentimenti forti e terribili, di odi implacabili, di miracoli e di sangue, di persecuzione e rappresaglia. Un inedito e per certi bizzarro versi paesaggio gotico ebraico, che ricorda le storie di vampiri. Non sono certamente racconti scritti per essere credibili come “documenti”, e neppure “Yossl Rakover” lo è, se lo vediamo in questo contesto. Sono invece documenti narrativi, scritti con notevole forza visionaria e abilità letteraria di un’idea politica su come resistere all’antisemitismo e uscire dalla Shoà. Vi si propaganda l’idea di un’identità ebraica forte, vendicativa, muscolare, combattente, che si difende con le armi ma anche con un’intensità emotiva che non ammette tentennamenti, incertezze o mezze misure. L’identità religiosa dell’ebraismo resta sullo sfondo o si trasforma in una specie di forza mistica, di esaltazione sovrumana della volontà. È l’affermazione nazionale ciò per cui vale la pena di vivere e morire.

Si tratta di un’idea dell’ebraismo che può piacere o meno, ma che corrisponde a un ben preciso ambiente politico, come documenta bene la ricostruzione della personalità dell’autore che Vincenzo Pinto propone nella sua postfazione: amico di Jabotinski, militante dell’Irgun arrestato due volte dagli inglesi, in gioventù ammiratore di Mussolini, dopo la guerra propagandista per la lotta clandestina in Israele (in questo periodo, nel 1947, nascono questi racconti) e poi produttore di successo di film e spettacoli teatrali di tema ebraico, ma anche autore di saggi di carattere filosofico e teologico che sostengono, secondo la ricostruzione di Pinto, l’idea di una sorta di “esistenzialismo ebraico”. In attesa di poter consultare questi scritti che non sono disponibili in italiano, questi racconti meritano di essere letti, sia per la loro notevole originalità letteraria, sia perché ci illustrano con evidenza lo stato d’animo profondo, l’immaginario, di un filone dell’identità ebraica contemporanea diverso sia dalla conservazione della tradizione haredì, sia dal socialismo ebraico di Ben Gurion e dei suoi eredi, sia soprattutto da tutte le voci liberal o concilianti nei confronti dell’Occidente e soprattutto del mondo arabo. È una linea (molto frastagliata, naturalmente e piena di differenze) che parte da Jabotinski ed eventualmente da Rav Kook e che arriva attraverso e oltre Begin fino all’attuale sionismo religioso che anima gli insediamenti nei Territori.


Zvi Kolitz, La tigre sotto la pelle – Storie e parabole degli anni della morte, a cura di Vincenzo Pinto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pagg. 174, € 14.