La sfida di Israele

Libri

di Ester Moscati

Il nuovo libro di Meghnagi.

“Il timore oscuro che accomuna gli ebrei di ogni luogo è che le realizzazioni del sionismo siano un mero intervallo rispetto alla realtà dell’esilio”, scrive David Meghnagi nel suo libro Le sfide di Israele (Marsilio). Si tratta di un timore che ha un fondamento di realtà e che la letteratura israeliana ha saputo approfondire fornendo strumenti cognitivi ed emotivi per elaborarlo e contenerlo.
L’angoscia, in questo caso, è legata alla realtà di un territorio vulnerabile, per struttura e dimensioni. Il paese non ha una profondità territoriale che lo protegga, può essere colpito da lontano e da vicino. La fascia costiera dove è concentrata la maggioranza della popolazione è molto stretta. Da est il territorio plana sul mare con un dislivello grande e a sud è desertico. Il confine passa per la capitale e lambisce le sue città. E che dire dell’atavica paura dell’abbandono? Anche se non c’è stata epoca, negli ultimi 2000 anni, in cui gli ebrei siano vissuti meglio, questa paura ha un fondamento.
Le parole malate, quelle che definiscono gli ebrei come “nuovi carnefici” sono il risultato di una costruzione che si è affermata lungo l’arco di quattro decenni frutto di una convergenza perversa del rifiuto arabo con la politica dell’Unione Sovietica e della Cina, dell’ideologia terzomondista e del bisogno tutto europeo di liberarsi dal fardello di colpa della Shoah.
“Lo stereotipo”, spiega Meghnagi, “è difficile da combattere perché viene da lontano, è una costruzione che dà forma al pensiero e impedisce di guardare alla realtà con occhi liberi. L’idealizzazione dell’ebreo morto nei campi di sterminio e la demonizzazione dell’ebreo vivo e vegeto, sono parte di uno stesso meccanismo di scotomizzazione e di scissione di un’immagine ambivalente. In entrambi i casi siamo di fronte a simboli e non a persone, simboli del bene assoluto e del male in cui sono assenti le persone reali con le loro angosce, speranze e paure”.

“Ci sono molte parole nel dibattito su Israele che vanno curate come le persone. Curare le parole, non dicendo mai nulla di cui potersi un giorno vergognare è un atto politico, non solo morale. È la premessa perché il dibattito sia ricondotto ai suoi termini reali e il compromesso sia reso possibile. Perché di questo in fondo si tratta, restituire il diritto alla sicurezza e alla vita ai popoli della regione e alle minoranze oppresse. Le parole non sono indifferenti, ma assolutamente sostanziali. E le parole, dice Meghnagi, si possono ammalare e vanno curate, come le persone. Le parole malate, quelle che demonizzano l’avversario, falsificano i fatti, cercando di costruire per sé alibi e giustificazioni, oggi dilagano e avvelenano sempre di più gli animi. Attraverso la demonizzazione, “le classi dirigenti arabe”, scrive Meghnagi, “hanno evitato di fare i conti con due fatti per loro psicologicamente inquietanti”. E cioè l’aver subito sconfitte militari da parte di un esercito formato non da potenti colonizzatori ma dai figli delle mellah e delle hara, i dhimmi disprezzati, oggetto di “protezione” in cambio di una sottomissione totale, considerati imbelli, e non adatti al combattimento. Il secondo fatto, ancora più pesante da sopportare, era non essere riusciti a perpetrare il secondo olocausto ebraico “rigettando nel mare Israele”. Il mancato olocausto ebraico è diventato nell’immaginario arabo e islamico “olocausto subito”, Harsa, e Naqba, la catastrofe.

Ecco perché questo libro di David Meghnagi, (Le sfide di Israele, lo Stato ponte tra Occidente e Oriente, Marsilio editore, pp. 173, euro 19.00), ci pare diverso da tutti gli altri, ovvero i libri che forniscono una sintesi e un’interpretazione della storia di Israele, della sua fondazione come modello di integrazione che, nel mondo oggi segnato da forti flussi migratori, è uno specchio ineludibile per ogni democrazia. È diverso perché in poco più di 150 pagine, Le sfide di Israele dà conto e ragione di aspetti a volte considerati marginali o emotivi della vicenda mediorientale. È un orto seminato a idee, dove più che nozioni e risposte il lettore troverà spunti di riflessione e ottiche multifocali per guardare a Israele come forse non aveva mai fatto. Ed è nella stessa cesura dei capitoli che ci si rende conto quanto la chiave di lettura risenta fortemente dell’abito mentale e professionale dell’autore, -psicologo e psicoterapeuta-, oltre che della sua personale ferita di profugo, una famiglia libica segnata dai pogrom che hanno colpito a più ondate anche gli ebrei dei Paesi arabi. E tutto ciò non per consumare una vendetta o una rivalsa, ma al contrario per marcare una compartecipazione al dolore dell’altro, che non è affatto un “estraneo”. “Perché mai arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi, non dovrebbero un giorno tornare a parlarsi?”, si chiede Meghnagi. “Perché mai un palestinese non dovrebbe potersi specchiare nella storia degli ebrei di origine afroasiatica? Perché mai il nipote di un sopravvissuto non dovrebbe aprire il cuore di fronte al dramma dei nipoti dei profughi della guerra del 1948?”. I titoli dei capitoli, dicevamo: “Speranze, simboli, immagini, pregiudizi, colpe, ambiguità, precarietà, ossessioni, antinomie” … Non si tratta di categorie classiche della “storia”: qui non ci sono nozioni, date, battaglie, -beninteso tutti elementi necessari a un qualsiasi percorso scientifico-. Necessari sì, ma non sufficienti a conoscere i volti del dolore, della pietà, dello sfruttamento e del cinismo che avvelenano da più di cento anni il rapporto tra ebrei e arabi.

Ebrei, Islam e occidente
“L’Islam”, dice Meghnagi, “vive un triplice lutto: un lutto più antico legato all’immagine della decadenza di un grande impero, quello più recente connesso alla penetrazione coloniale e al fallimento del processo di decolonizzazione. In questo complesso processo la nascita di Israele ha assunto su di sé in modo proiettivo tutti i mali che affliggono la civiltà islamica araba. Israele è diventato suo malgrado il capro espiatorio di tutti i mali che affliggono il mondo arabo e del fallimento dei rapporti tra l’Occidente e l’Islam. La tentazione di abbandonare Israele a se stesso da parte di alcuni settori del mondo politico europeo è il sintomo di una pericolosa fuga dalla realtà. Il rifiuto arabo è il segno di una difficoltà a elaborare pienamente il lutto, a guardare con occhi nuovi le tragedie del passato”. Il rifiuto arabo di Israele è funzionale alla sopravvivenza di regimi autoritari che hanno fallito il processo di decolonizzazione e di sviluppo. E allora eccolo lì, pronto, “il colpevole”: uno Stato minuscolo grande poco più di ventimila chilometri quadrati, per metà desertico, che è all’avanguardia della ricerca tecnologica e scientifica e che nonostante cento anni di guerre è riuscito a conservare un assetto democratico. “Tenere aperta una porta sul futuro”, conclude Meghnagi, “mantenere viva la speranza può diventare una necessità per conservare la propria salute mentale. Per dare voce alla speranza occorre saggezza e pietas, intelligenza e lungimiranza. Non fare e non dire nulla di cui vergognarsi significa per Israele e per gli ebrei mantenere aperti i confini dello spirito, gettare ponti di convivenza che rendano possibile in futuro le condizioni di una composizione politica dei conflitti che dividono oggi Israele dai suoi vicini. Israele è una piccola isola tra Occidente e Oriente, un’isola dentro il mondo arabo. Come recita un proverbio arabo ‘Chi vive in un’isola deve farsi amico il mare’. A Gerusalemme c’è una porta sbarrata, che guarda a oriente. Da quella porta secondo un’antica tradizione entrerà un giorno il Messia. La Porta della misericordia, della pietas e dell’incontro col dolore nostro e altrui deve essere tenuta aperta se vogliamo continuare a immaginare un futuro diverso per le generazioni che verranno. Per quella porta dovremmo tutti simbolicamente passare, ebrei e non ebrei, israeliani, arabi ed europei”.