La necessità di raccontare

Libri

Scrittore, poeta, intellettuale che sfugge a ogni definizione. Miro Silvera continua il suo viaggio all’interno del mondo della letteratura vista con gli occhi delle sue esperienze ebraiche. E continua a sostenere la necessità di raccontare. Nato in Siria, cresciuto a Milano, Silvera ha svolto lavori editoriali, collaborato a giornali e riviste, scritto di teatro, di cinema e di letteratura. Nella sua narrativa ricorrono i temi dell’enigma dell’identità e la ricerca delle radici della propria cultura. Fra i suoi libri “L’ebreo errante” e “Contro di noi: un viaggio personale nell’antisemitismo”.
In un intervento tenuto ad Amsterdam in occasione del convegno sulla Letteratura degli ebrei italiani e organizzato da Raniero Speelman dell’Università di Utrecht, Silvera ha portato assieme a studiosi e letterati come Giorgio Pressburger ed Elena Loewenthal, un intervento sul bisogno di scrivere degli ebrei in qualche modo legati alla cultura o all’identità italiana.

Eccone il testo:
Per duemila anni ostracizzati, ovunque esiliati, demonizzati e scacciati, noi ebrei non abbiamo avuto altra letteratura che non fosse quella biblica, altri saggi che non fossero quelli di commento al Testo sacra, come gli scritti – splendidi – di Rashi o di Maimonide. Ma anche quel disquisire era narrare, correre attorno all’immenso pozzo di storie che è la Bibbia.
E chi aveva tempo di scrivere con carta e penna, quando si trattava di salvare la propria pelle, scappando da un paese all’altro con ben poche cose nella sacca, e a volte un solo libro di preghiera bastava, per ancorarsi al fila delle identità perseguitate?

I racconti di famiglia erano invece per lo più orali, fatti per tramandare il senso della Storia alle generazioni più giovani, narrazioni svolte attorno alla tavola delle cena pasquale, oppure accanto al fuoco di un camino o alle fiamme di un bivacco, durante una drammatica fuga.
L’ebreo doveva nascondersi, ma si portava dietro tante parole racchiuse
nella memoria e nelle memorie tramandate. E da quando noi, ebrei d’Europa e d’America, ci siamo permessi di avere una letteratura? In realtà, solo a partire del Ventesimo secolo, cioè da ieri. Molti, nel frattempo, per venire accettati nello scintillante mondo dei “gentili”, avevano avvertito la necessità di convertirsi, abbandonando la religione dei padri. In Inghilterra l’ha fatto Disraeli per diventare Primo ministro, l’ha fatto in Germania il poeta Heinrich Heine per non essere emarginato, e a Vienna l’ha fatto Gustav Mahler per essere applaudito nei teatri di corte.
Nel Ventesimo secolo, in Italia e in letteratura, si erano ben mimetizzati per ottenere tutto il successo che ebbero sia Pitigrilli che Guido da Verona.
Ma anche Ettore Schmitz ha provato la necessità di nascondersi dietro al
nome d’arte di Italo Svevo.
Nella generazione successiva, saranno Giorgio Bassani, Primo Levi e Carlo Levi, nonché Umberto Saba, a rivelarsi con molta riluttanza in quanto ebrei, ma senza più la necessità di convertirsi. Primo Levi dovette scoprire la sua condizione di “diverso” nei campi di sterminio, Carlo Levi lo fece al confino, e Giorgio Bassani nella separatezza delle leggi razziali. Quando nel 1981 quest’ultimo lesse un dotto commento di Pietro Citati attorno a un raffinato libro di racconti di Nachman di Breslav, chiese meravigliato al noto critico perché mai avesse scelto di parlare di un autore così peculiare nel suo misticismo ebraico.

In quanto ad Alberto Moravia, non si era mai sentito nemmeno “mezzo ebreo”. Anche lui aveva cambiato cognome, assimilandosi agli altri con un
senso di liberazione. Un fatto è certo: la radice famigliare non fa certo lo scrittore “ebreo”.
Noi, nipotini di questi autori del Novecento (ma ce ne sono altri che vanno menzionati, come Alberto Vigevani, Alberto Lecco, ecc.) abbiamo invece avvertito imperioso il dovere di raccontarci in maniera diversa, e per quanto riguarda me in particolare, ossessivamente immerso nell’identità ebraica.
Sono orgoglioso delle mie origini, e ho voglia di raccontarlo in tante trame. L’ebraismo è per me, più che una religione, soprattutto una filosofia del vivere e un retaggio culturale.
Il mio narrare ne è dunque fortemente marcato. Non ho voluto nascondermi, e non voglio mascherarmi. Sono portatore di storie e di una umanità che vuole a tutti i costi essere trasmessa.
Questa è la mia linea e questa e la mia urgenza.
Nato in Medio Oriente (ad Aleppo, in Siria) in un Paese sorto dallo sfaldamento dell’impero Ottomano, e rimasto per venticinque anni sotto protettorato della Francia, la mia prima lingua è stata dunque il francese, e
subito dopo è toccato all’arabo. La terza è stata l’italiano e la quarta,
a scuola a Milano, l’ebraico seguito poi dall’inglese.
Da questa Babele di idiomi è nata la mia scrittura, una specie di creatura
del dottor Frankenstein che cerca di occultare nella semplicità del dettato le tante parti cucite dei fonemi che la compongono.

Credo fermamente che oggi lo scrittore debba assolvere una funzione decisamente etica. Forse anche eretica. Nel caos del mondo nuovo, si deve condurre il lettore a pensare.
“Lo scrittore, se vuole sopravvivere, deve continuare a essere il veleno del proprio ambiente sociale”, come dice Antonio Scurati. Un dolce veleno, dico io: erbe amare mescolate con il miele, o intinte nell’aceto come si fa ancora per le feste antiche. Adesso che noi scrittori di tradizione ebraica abbiamo ottenuto di scrivere e di far sentire la nostra voce – ma se il nazismo islamico dovesse prevalere, ci toglierebbe di sicuro questo privilegio perché si può fare dittatura solo sull’ignoranza – non rinunceremo tanto facilmente all’esercizio critico, il più possibile intelligente e attento ai valori umani, narrando la grande Storia e le nostre piccole,
infinite storie, dalla barzelletta al romanzo più impegnativo.
Dalla devastante esperienza della Storia, e di quella del Novecento in particolare, l’imperativo è più che mai quello di raccontarsi e di raccontare le diversità, troppo a lungo taciute.