Antisemitismo islamico e Jihad: la Fratellanza musulmana ostacola e minaccia la “normalizzazione” del Medioriente

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture] Ci sono dei libri che provocano disagio a leggerli, danno un senso di nausea e di rabbia, se non di scoraggiamento. A noi ebrei capita spesso coi libri sulla Shoah e in genere sull’antisemitismo, in cui si vede l’estensione e la profondità di un odio che ci tocca e che non abbiamo fatto nulla per provocare. Ma questi libri vanno letti, sono indispensabili per capire, per cogliere i sintomi, per non farsi illusioni, soprattutto se espongono dati nuovi, raccontano delle storie non ben conosciute. È il caso di un volume pubblicato un paio di mesi fa dall’editore Belforte, intitolato Il Jihad e l’odio contro gli ebrei – l’islamismo, il nazismo e le radici dell’11 settembre. Ne è autore uno storico e politologo tedesco, Matthias Küntzel, che da una formazione di sinistra si è specializzato sullo studio dell’antisemitismo islamico.
Benché il titolo sia lungo e molto esplicativo, ne mancano un paio di parole chiave. La prima è “Egitto”, perché l’oggetto privilegiato di osservazione della ricerca è proprio il paese più popoloso, più ricco di cultura e di identità storica del mondo arabo. La seconda parola chiave è “Fratellanza musulmana”, cioè l’organizzazione fondata nel 1928 da Hasan al-Banna, che ancora oggi ha un peso determinante nel mondo islamico, dominando per esempio le politiche della Turchia e del Qatar e controllando l’opposizione ad Al-Sisi in Egitto, dopo averne preso il governo fra il 2012 e il 2013 con Mohamed Morsi. Il libro si occupa soprattutto di questa organizzazione, dell’antisemitismo del suo fondatore, di quello ancora più accentuato del suo ideologo Sayyid Qutb, dei suoi rapporti con chi ne divenne negli anni Quaranta il principale esponente politico e il fondatore della “questione palestinese”, il Gran Mufti di Gerusalemme Mohammed Amin al-Husseini, e poi con il fondatore della rivoluzione islamica in Iran, l’ayatollah Khomeini; della fondazione di Hamas come sezione palestinese della Fratellanza, del suo statuto che promette di combattere non solo Israele, ma anche il “sionismo mondiale”, cioè gli ebrei, della diffusione di scritti antisemiti come Mein Kampf e dei Protocolli dei Savi di Sion, dell’influenza sugli attentatori dell’11 settembre, dei rapporti intimi e continui con l’ideologia nazista.

Il punto fondamentale che emerge dallo studio è questo: non era affatto detto che la reazione araba all’immigrazione ebraica e poi alla fondazione dello Stato di Israele fosse così tossica come è stata e continua in buona parte a essere. Nei primi due decenni del secolo scorso vi furono numerose personalità arabe che pensavano alla presenza degli ebrei come un possibile strumento di progresso regionale che coinvolgesse anche loro. Queste posizioni se non positive almeno possibiliste erano presenti sia in Egitto che nel territorio del Mandato britannico, ma furono sconfitte col sangue proprio dalla Fratellanza Musulmana che dalla propria fondazione (quindi ben prima della fondazione di Israele) scelse la figura dell’ebreo come simbolo della modernità ed emblema di ogni male, l’avversario da sconfiggere per riportare l’Islam alla purezza originaria. Per far questo attivò temi, pensieri e pratiche già ben presenti nella tradizione musulmana, dalla distruzione che Maometto compì delle tribù ebraiche di Medina e di tutta l’Arabia, ree di non aver creduto alla sua profezia e di non esserglisi sottomesse, fino agli statuti della dhimmitudine che per secoli avevano relegato le comunità ebraiche presenti nel mondo islamico a una condizione di miseria, umiliazione, sottoponendole spesso a pogrom e vere e proprie stragi.

Ma nella storia dei paesi islamici, per esempio nell’impero ottomano e nel califfato omayyade di Cordova vi erano stati anche altri atteggiamenti e altri rapporti, mai paritari ma più pacifici, che furono però respinti dal progetto antisemita della Fratellanza. Coloro che nel mondo arabo cercavano di costruire un qualche modello di convivenza con gli ebrei e Israele furono però sterminati uno ad uno dai “fratelli musulmani”, che fossero re di Giordania, presidenti dell’Egitto, o persone comuni che volevano solo vivere una vita normale a fianco dei loro vicini.
Il nucleo centrale del libro si ferma al 2002, ma molti dei suoi insegnamenti sono ancora attuali. Lo scontro fra militari egiziani e Fratellanza, che si svolse con alterne vicende, fra complicità e repressione, durante i regimi di Nasser, Sadat, Mubarak è proseguita in termini analoghi dopo la crisi della “primavera araba” sequestrata dai “fratelli” e continua oggi, con il dettaglio interessante che i “democratici” e “progressisti” occidentali tendono a mettersi dalla parte non di chi cerca di intrattenere un rapporto realistico, se non amichevole con l’Occidente, cioè i militari, ma con i suoi più accaniti e ideologici nemici, propugnatori di un ritorno integrale al medioevo islamico, cioè i “fratelli”. La stessa contrapposizione fondamentale (e gli stessi appoggi squilibrati) si ritrovano oggi a livello internazionale, al di là della distinzione fra sciiti e sunniti, fra gli Stati più ideologicamente antisemiti e antioccidentali (Iran, Turchia, Qatar…) e quelli “realisti” che cercano accordi pragmatici sulla base dei loro interessi con tutti, compreso Israele. Il problema centrale è sempre lo stesso, cioè una forma di antisemitismo che prende gli ebrei come sintomo e causa della modernità e vuole distruggerli per far sparire anch’essa e tornare a un mitico passato di purezza. Nel ragionare sulle scelte politiche che si offrono oggi in una situazione che quasi ogni giorno appare nuova, bisogna tener conto di questo vecchio blocco e della sua influenza, che continua a ostacolare la normalizzazione del Medioriente: come se in Europa l’ideologia dominante fosse ancora quella del nazismo.