Altro che inconsapevole! Negli anni Trenta, il mondo ebraico era lucido e cosciente del pericolo. Ieri come oggi

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di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita]  Dal 7 ottobre 2023 molte certezze sul never again “mai più” sono crollate. La superiorità militare di Israele nel Medio Oriente viene messa alla prova e lo scatenarsi di un antisemitismo sempre più palese ed aggressivo nei paesi che sembravano sicuri per le diaspore ebraiche rimette in questione il futuro degli ebrei fuori da Israele. Si parla molto di un ritorno dell’atmosfera che caratterizzava gli anni Trenta. Eppure la storia non si ripete ma “lampeggia”. Questa è la metafora usata dallo storico franco-israeliano Simon Epstein per descrivere la percezione del pogrom di Chisinau (Kishinev) avvenuto nel febbraio 1930, 27 anni dopo quello di 1903. Le condizioni politiche erano diverse: la città di Chisinau non faceva più parte ormai della Bessarabia russa ma della România mare, la Romania estesa dopo le acquisizioni territoriali del 1918. Di fronte a questo evento simbolico, gli ebrei romeni e molti dei loro correligionari nel mondo espressero la loro indignazione e decisero di lottare a livello politico contro le manifestazioni dell’antisemitismo sempre più minaccioso, nel 1930, l’anno che Epstein sceglie per descrivere l’orizzonte di attesa degli ebrei del mondo nel suo libro 1930, une année dans l’histoire du peuple juif (Parigi, Stock, 2011). Dopo 14 anni, questo libro basato su una lettura attenta della stampa ebraica fra gennaio 1930 e gennaio 1931 non ha una ruga. Anzi la recrudescenza dell’antisemitismo e  lo shock del 7 ottobre ne hanno forse riattualizzato la pertinenza. Epstein ha fatto un esercizio intellettuale per evitare ad ogni costo la tentazione di proiettare su quella svolta storica del 1930 l’ombra tragica di ciò che stava per accadere negli anni successivi: la salita di Hitler al potere nel gennaio 1933; lo scoppio della Seconda guerra mondiale; la distruzione di una grande parte dell’ebraismo europeo. Concentrandosi principalmente sulla Polonia, la Germania e la Palestina mandataria, l’autore rivela che l’opinione pubblica ebraica del mondo in generale e di questi tre paesi in particolare non era affatto cieca sui rischi che perturbavano la serenità delle coscienze.

La ri-analisi delle analisi politiche dell’epoca è utile per far capire che l’allarmismo attuale deve forse essere preso sul serio, benché fra le due situazioni storiche (1930 e oggi) ci sia una differenza sostanziale: l’esistenza di uno Stato ebraico dotato di mezzi militari potenti e disposto ad accogliere qualsiasi ebreo in ricerca di un posto più sicuro che non sia l’Europa, sempre di più pro-palestinese, antisionista e antisemita, o gli Stati Uniti dove gli ebrei sono intrappolati fra l’incudine del trumpismo e il martello del wokismo. Per tornare al libro di Epstein, la situazione nella Palestina mandataria nel 1930 era lontana da generare ottimismo: la popolazione ebraica del paese contava 160.000 ebrei su un totale di un po’ più di 1 milione di abitanti

Dopo i pogrom dell’agosto 1929, quando 133 ebrei vennero trucidati da arabi armati manipolati dal Gran Mufti di Gerusalemme Hajji Amin al-Husayni, i britannici considerarono quell’ondata di massacri come la conseguenza dell’immigrazione di decine di migliaia di ebrei e decisero di limitare severamente la ‘alyah attraverso la promulgazione del Secondo Libro bianco (ottobre 1930). L’analisi delle reazioni alla rinuncia delle promesse fatte nella Dichiarazione Balfour (ripresa nell’articolo 22 della Convenzione della Società delle Nazioni), dimostra che la speranza di creare uno Stato ebraico in Palestina sopravvisse alle misure scellerate della Potenza mandataria.

Lo Yishuv ebraico di Palestina continuò a sviluppare le infrastrutture di un embrione di Stato nonostante la volontà dei britannici di evitare che gli ebrei palestinesi diventassero un giorno la maggioranza nel paese. Come accade oggi, si disputavano due grandi correnti dentro le rappresentazioni politiche dello Yishuv: il Mapai, creato il 5 gennaio 1930, considerava l’instaurazione dello Stato ebraico come una meta lontana che esigeva l’organizzazione preliminare di una società ebraica ben strutturata in Palestina; invece Zhabotinskij  (cui i britannici vietarono di risiedere in Palestina a partire dal 1930, precisamente) e i suoi seguaci del movimento sionista revisionista esigevano la proclamazione immediata dello Stato ebraico, col rischio di mettere il carro davanti ai buoi.

Certo la situazione odierna è ben diversa: lo Stato di Israele esiste da 77 anni e ha tutti i mezzi per permettere l’immigrazione ebraica e la difesa degli abitanti. Eppure la polarizzazione fra gli eredi spirituali del Mapai (non necessariamente il Partito laburista ma più in generale tutte le forze dell’opposizione, dal centro alla sinistra storica) e i seguaci del sionismo revisionista rappresentati dal Campo nazionale (ha-mahaneh ha-leumi) continua a dividere profondamente la società israeliana traumatizzata dal 7 ottobre. Tornando a Simon Epstein, il merito del suo libro è stato di invitare il lettore a mettersi mentalmente nelle condizioni di percezione politica degli ebrei della generazione dei “nostri genitori, ebrei degli anni 30”, ai quali l’autore ha dedicato il suo capolavoro di storia onesta e rigorosa.