di Esterina Dana
Durante il pomeriggio della Giornata Europea della Cultura Ebraica, hanno partecipato all’evento sulla letteratura israeliana Roy Chen, Sara Ferrari e Anna Linda Callow, introdotti da Fiona Diwan (da destra nella foto).
La letteratura israeliana contemporanea, tradotta in tutto il mondo, racconta una polifonia di voci che ha suscitato sempre grande entusiasmo per autori quali David Grossman, A.B. Yehoshua, Amos Oz, ma anche per scrittori di nuova generazione come, uno per tutti, Eshkol Nevo. Oggi, dice Fiona Diwan, è lecito chiedersi che fine abbiano fatto questa passione e questa energia. Ci siamo illusi che tradurre i libri e diffonderli, avvicinasse il mondo occidentale a Israele, ma ci siamo accorti di un vizio di forma: la maggior parte dei lettori di letteratura israeliana pensa che quegli scrittori siano fortemente critici su Israele.
L’ultimo libro di Roy Chen, Il grande frastuono, è di estrema attualità e porta nel cuore del tema. Come un apologo moderno, racconta un rumore assordante, un caos che impedisce di capire e di ascoltare. Interpellato da Fiona Diwan sulla sua visione della letteratura in tempo di guerra e di antisionismo, e su quanto c’è di Israele nel romanzo, Roy innanzi tutto si dissocia dall’idea che la gente pensi che gli scrittori israeliani siano critici su Israele. Ritiene che essere critici è bene. Il grande frastuono, scritto nel 2023, è un po’ profetico. Il personaggio di Zipora è il suo alter ego: una traduttrice di Finnegan’s wake di James Joyce atea che, dopo un incidente, inizia a sentire la voce di Dio. La sua relazione con Lui è speculare a quella dell’autore stesso: “Io sono ateo, ma parlo con Dio ogni giorno, soprattutto negli ultimi due anni”.
Secondo Chen, oggi il “grande frastuono” è diventato più violento, un rumore incessante che genera ansia. Il simbolo di questo rumore è il telefono. Nel romanzo, le tre protagoniste ne sono prive: la figlia perché l’ha lasciato a casa, la madre perché si trova in un luogo di meditazione dove è proibito usarlo, e così via. Senza telefono possiamo finalmente sentire noi stessi, dice, e il dialogo de visu è meno violento. Con un libro riusciamo a stare in contatto con noi stessi e con l’autore: è una lezione di fiducia e la mia soluzione per arrestare il rumore. Il romanzo, intriso di surrealtà e dell’umorismo tipico di Roy Chen, contiene anche critica, amore e pace.
Insigne studiosa di yiddish e di ebraico moderno Anna Linda Callow parla dell’“universo della lingua che visse due volte”. Racconta come la sua esperienza di insegnante sia segnata dal confronto con due grandi tradizioni letterarie, che hanno avuto origine da Mendele Moicher Sforim, padre sia della letteratura yiddish, sia di quella ebraica moderna. In Israele, sottolinea Diwan, la maggior parte degli scrittori è laterale o dialettico rispetto alla realtà israeliana. Uno scrittore, dice Callow, deve saper mettere il dito nella piaga; altrimenti fa solo intrattenimento. È normale che gli scrittori vengano accusati di essere critici. La mia esperienza è stata per lo più positiva: i lettori desiderano capire, anche se alla fine ciascuno resta ancorato alle proprie idee. Non c’è letteratura che possa vincere un pregiudizio radicato.
“Le ideologie non si cambiano, è vero, ma il tema è diventato più caldo – sottolinea Diwan -. Negli ultimi due anni, la coscienza critica lacerata degli scrittori israeliani viene interpretata al contrario; le loro parole vengono catturate e ributtate su di loro”.
La grande fortuna della letteratura israeliana è dovuta alla capacità di scandagliare il tema della famiglia, toccando tutte le corde. Gli scrittori, un tempo ambiti da lettori e editori, ora sono sul filo del rasoio e non sanno come muoversi tra il dire apertamente e difendersi, senza sentirsi rilanciare addosso le proprie parole cambiate di segno.
“Non mi sono mai tirata indietro dall’unire storia e letteratura – dichiara Sara Ferrari, insegnante di ebraico moderno e traduttrice – è un dovere di onestà intellettuale. Criticare non significa distruggere, ma amare. Non mi aspettavo quello che sta accadendo oggi, ma credo che l’unica soluzione sia continuare a fare il proprio lavoro: gli scrittori devono scrivere”.
“Anche i giornalisti hanno peccato di disonestà intellettuale, con titoli adulterati o omissivi”, sottolinea Diwan.
“Io – dichiara Roy Chen – cerco la mia voce più locale, più intima. La letteratura è un Paese e lì voglio abitare, perché è salvifica. Da adolescente sognavo di diventare uno scrittore yiddish ebreo, folgorato dall’incipit di Shosha, il romanzo di Isaac Bashevis Singer: “Sono nato con tre lingue morte: l’ebraico, l’aramaico, lo yiddish”. Noi ebrei non abbiamo avuto un paese per Duemila anni. Oggi abbiamo una casa, ma io voglio abitare dove nessuno ti chiede il passaporto: in Israele e nella Letteratura che è senza nazionalità”.
“Lo yiddish è una lingua transnazionale per la quale c’è un rinnovato interesse – dice Callow – emerso poco prima della scadenza dei diritti d’autore delle opere di Israel Joshua Singer (La famiglia Karnowski, 1944). Adelphi e altri editori hanno investito nelle traduzioni. Ma lo yiddish non può sostituire la letteratura israeliana: ogni lingua, ogni epoca ha la sua voce. Oggi, però, “il grande frastuono” rischia di coprire e distorcere la produzione che viene da Israele.”
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli scrittori yiddish più promettenti morirono e oggi si pubblicano soprattutto opere degli anni Quaranta. La storia ha eretto una barriera intorno alla letteratura yiddish: oggi manca il substrato sociale e culturale che la nutriva. L’interesse per l’ebraismo è molto forte, ma spesso prende vie deviate, persino morbose. La letteratura yiddish, tuttavia, è stata in parte risparmiata dalla pressione dei social.
Di che cosa risentono oggi gli editori nella traduzione di libri israeliani? E quali sono i temi della letteratura israeliana contemporanea?
“Siamo a un punto di svolta – risponde Sara Ferrari -. Molte voci si sono spente. Oggi c’è un ricambio generazionale, ma autori affermati come Ayelet Gundar-Goshen o Eshkol Nevo proseguono la loro attività. Dopo il 7 ottobre, però, si chiedono di che cosa scrivere, se non di quel drammatico evento. Lo scarso numero di traduzioni ci obbliga ad attendere. I temi della narrativa israeliana sono già cambiati negli anni: il rapporto con l’altro, inteso come mondo arabo (ma non solo) e il confronto con ciò che accade fuori da Israele. Spesso gli scrittori ne scrivono da lontano: a Berlino, ad esempio, ci sono autori che raccontano Israele da laggiù. Questo è molto interessante. Roy stesso afferma di scrivere un romanzo israeliano, ma di collocare il presente altrove”.