All’ombra dei cipressi e dentro le maestose sale di preghiera… Come si viveva (e si moriva) nell’Italia ebraica

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di Michael Soncin

Mostre / Al Meis di Ferrara fino al 17 settembre. Architetture, stili, paesaggi. Luoghi di raccoglimento e spiritualità. Ma anche costruzioni nate come palazzi-monumenti della socialità e della vita ebraica, con i suoi rituali, festività, matrimoni, nascite e funerali. Perché sinagoghe e cimiteri sono spazi simbolici e iconici della storia bimillenaria dell’ebraismo italiano. Decine di immagini e pezzi esposti a Ferrara, in una mostra piena di pathos e di scoperte.

 

Ci piace immaginarli nei secoli, mentre si aggirano nella penombra estiva che avvolge l’Aron ha Kodesh della sinagoga o mentre passeggiano tra le tombe vetuste degli austeri sepolcreti ebraici: sono i fantasmi dei numerosi poeti dell’ebraismo italiano, Immanuel Romano che visse a Roma a cavallo tra il Duecento e il Trecento, Mosè da Rieti che scrisse in pieno Rinascimento, Leon da Modena nel Seicento o Salomone Fiorentino vissuto nel Settecento a Monte San Savino, e ancora molti altri. Eccoli mentre vagano romanticamente tra cimiteri e sinagoghe d’antan, immersi in un’atmosfera che potremmo ritrovare anche oggi. Immersi dentro due spazi simbolici e iconici dell’ebraismo italiano. «Entrambi questi due spazi sono stati un potente veicolo d’identità. Possiamo affermare che attraverso le tradizioni e i precetti applicati e praticati intorno a cimiteri e sinagoghe, si è tramandata una coscienza ebraica che ha permesso la sopravvivenza delle comunità ebraiche». I luoghi a cui fa riferimento Rav Amedeo Spagnoletto sono meravigliosamente raccontati nella mostra Case di vita. Sinagoghe e Cimiteri in Italia a Ferrara, al MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, di cui Spagnoletto è curatore con Andrea Morpurgo, fino al 17 settembre 2023.
Un racconto dei due luoghi affrontato dal punto di vista sociale, rituale e architettonico, che si intreccia alla storia bimillenaria dell’ebraismo italiano. Costruzioni nate come palazzi-monumenti della socialità della vita ebraica, con i suoi rituali, festività, matrimoni, nascite e funerali. Decine di pezzi in mostra e scrupolosamente descritti con un ricco apparato grafico nel volume pubblicato da Sagep Editori: disegni, carte di progetti, manufatti preziosissimi, oggetti di famiglia, che spiegano l’evoluzione degli spazi adibiti al culto ebraico.

SPAZI IDENTITARI E SIMBOLICI
Sinagoghe e cimiteri sono per eccellenza i due spazi identitari dell’ebraismo, e hanno avuto un cammino parallelo. Prima dell’emancipazione (XIX secolo) è una storia fatta di necessità: gli ebrei, attraverso i patti di condotta, chiedevano il permesso di aprire luoghi in cui pregare e luoghi adibiti alla sepoltura. Spazi funzionali ma soggetti a limitazioni: nessuna manifestazione esteriore, il divieto di mostrare apertamente la presenza di una Sinagoga all’esterno, sullo spazio pubblico, sì dentro al tessuto urbano ma non percepibile come un luogo particolare (mentre all’interno invece poteva esibire tutta una serie di elementi architettonici di pregio). «Lo stesso vale per i cimiteri.

Quando venivano concessi erano sempre extra-muros, cioè fuori dalle mura cittadine, con una serie di limitazioni che ovviamente cambiavano in base ai vari contesti, come l’impossibilità di recintarli». Andrea Morpurgo, storico dell’architettura degli spazi ebraici, spiega che questa vicenda parallela è connotata da restrizioni normative e quindi anche stilistiche: con il periodo dell’emancipazione (1800), questo parallelismo inizia a dialogare sempre più. «Quello che intendo dire è che la libertà politica, civile e religiosa, porta gli ebrei italiani, come gli ebrei di altri paesi europei, a conquistare indipendenza e autonomia anche rispetto alla forma stilistica di quei luoghi. È la stagione in cui la Sinagoga cambia, diventando ‘Tempio israelitico’, e si inizia a discutere su quale forma debba avere un luogo di preghiera ebraico.

Un dibattito sullo stile che coinvolge anche i cimiteri. Nasceranno così nuovi sepolcreti, spesso posti all’interno dei cimiteri comunali, istituendo delle grandi sezioni israelitiche. Un fenomeno che va di pari passo a un processo d’integrazione, un mutamento che coinvolge la dimensione civile, comunale, famigliare: le sepolture prima dell’emancipazione erano fondamentalmente molto semplici, senza differenziazioni l’una dall’altra. D’ora in avanti invece molte famiglie ebraiche, specie le più abbienti, iniziano a costruire delle tombe monumentali, stilisticamente molto ricche che, tra l’altro, richiamano le forme e gli stili delle sinagoghe che si stanno costruendo in quegli anni».

Sinagoga o Tempio? A spiegare la differenze tra i due termini è il Direttore del MEIS, Spagnoletto in uno dei saggi nel catalogo. «Iniziamo chiarendo fin da subito un equivoco che riguarda il nome comunemente dato a quell’ambiente. Se per convenzione e direi in modo corretto, in questa mostra si usa il termine ‘sinagoga’, dobbiamo essere molto franchi: pochissimi ebrei lo chiamano così». «Sinagoga è un termine – spiega il curatore – che incontreremo negli atti che, in qualità di ente, la Comunità o i privati ebrei siglavano con la città o persino in qualche documento interno amministrativo. Scola era il termine più famigliare, ma anche bet ha-keneset, traduzione dal termine greco sinagoga (syn-agoghé, radunarsi insieme, ndr), oppure Tempio». Tutti infatti dicono “vado al Tempio”.


«Nella mostra – aggiunge Spagnoletto – è stato messo in luce il patrimonio dei luoghi di preghiera che caratterizza l’Italia, grazie a una presenza ininterrotta di oltre duemila anni. Ma si sottolinea anche l’evoluzione stilistica che accompagna questo spazio, che rimanda alla visione di se stessi che gli ebrei hanno voluto trasmettere all’esterno. Basti pensare al fatto che, a partire dall’Ottocento, il tempio è molto di più di un luogo di culto: cerimonie pubbliche, incontri politici e diplomatici con le autorità o i rappresentanti del mondo culturale e politico, tutto avverrà al Tempio».

 

IL CIMITERO: LA CASA DELLA VITA
Ma perché il cimitero viene chiamato Bet Chaiim, “la casa della vita”? «È un modo tipico del mondo ebraico. Parte dalla figura retorica dell’antifrasi, per indicare un oggetto o una situazione con il suo opposto, il suo contrario. Questo nella letteratura ebraica si chiama leshon saghi’ naor, che vuol dire ‘abbagliato dalla luce’. È il modo, ad esempio, di chiamare il non vedente, la cecità indicata con l’eccesso di luce; per non sottolineare ciò che è mancante o negativo, si usa così un concetto opposto. Ma ci sono altri due aspetti: tra i suoi caposaldi e principi di fede l’ebraismo conta l’idea della resurrezione dei morti, e quindi della nuova vita, della rinascita, ed ecco perché Bet Chaiim. In secondo luogo, per le sue lapidi, gli epitaffi, le tante forme di esaltare le virtù del defunto, il cimitero è un potente richiamo alla vita e al modello etico che dai defunti giunge a noi».

 

MANUFATTI, PREZIOSE TESTIMONIANZE DELLA STORIA EBRAICA
«Sono orgoglioso che nella mostra ci sia l’Aron haKodesh di Vercelli, che oltre alla bellezza e simbolo di una piccola comunità, possiede gioielli, i quali una volta restaurati e valorizzati, costituiscono un richiamo per il visitatore. Inoltre, troverete il completo di Sefer Torah in argento sbalzato e cesellato donato recentemente dalla famiglia Finzi in memoria del loro genitore Sabatino, deportato durante la retata il 16 ottobre 1943 e sopravvissuto ad Auschwitz. È un’opera che trasuda simboli come la resilienza, la memoria per i sei milioni di fratelli scomparsi ed anche la vita ebraica che si rinnova nella frequentazione assidua del tempio, forte e vigorosa, aggrappata tenacemente ai precetti e alla tradizione», ha raccontato Spagnoletto.


La mostra è ricchissima di pezzi importanti e significativi. «Ci sono due codici miniati del XV secolo – racconta Morpurgo – preziosi, di una qualità eccelsa. E poi libri di preghiera miniati con raffigurata la forma-paradigma di una sinagoga medieval-rinascimentale dell’Italia Centro Settentrionale. Grazie a queste due rappresentazioni oggi siamo in grado di conoscere com’era una sinagoga di quei tempi. Di fronte a noi abbiamo perciò da una parte la bellezza dell’oggetto, dall’altra la capacità del documento di dirci com’erano questi luoghi».
«In una sala della mostra – continua lo storico – abbiamo trasportato tre categorie sepolcrali, presenti all’interno di musei e lapidari, per cercare di ricostruire le differenti tipologie dei sepolcreti ebraici, ovviamente del periodo pre-emancipazione. Quelle esposte abbracciano un arco temporale che va dal ‘500 al ‘700: quella dal ferrarese a forma di sarcofago; la triestina, a stele; l’altra dalla zona di Mantova a forma di cippo. Il visitatore ha dunque in questa sala la concreta percezione di quello che era lo skyline di un cimitero ebraico racchiuso in questa fascia storica».

IL QUADRO DAL LOUVRE

Funèrailles juives, 17eme siecle

«C’è poi esposto un quadro molto importante proveniente dal Louvre, prestato al Museo Ebraico di Parigi, ad opera del pittore italiano Alessandro Magnasco (1667-1749), considerato il padre della pittura grottesca fantastica del Settecento, un artista non ebreo, appassionato a temi ebraici, che ha eseguito diversi dipinti di interni di sinagoghe. Quello qui presente si chiama Funerale ebraico, un olio su tela eseguito nel 1720». Nella mostra, che ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica, sono inoltre presenti i bozzetti per le vetrate della Sinagoga di Genova, dalle vivaci cromie pastello; un disegno acquarellato di grande fattura del 1791, di Moise del Conte, Sinagoga vecchia, proveniente dalla Comunità Ebraica di Livorno; e ancora, una stampa acquarellata prestata dai Musei Civici del Comune di Mantova, Interno della Scuola Grande, eseguita nel 1829.

 

 

Catalogo della mostra: Case di vita. Sinagoghe e Cimiteri in Italia,
a cura di Andrea Morpurgo e Amedeo Spagnoletto,
pp. 200, con tavole a colori, Sagep Editori, euro 30,00.

 

 

Immagine in alto: Moise del Conte, Sinagoga vecchia Livorno, 1791, disegno acquerellato, 72 x 129 cm, Comunità Ebraica di Livorno