Genio compreso

Arte

di Ilaria Myr

Intervista a Noma Bar, da Israele al mondo: «Uso il graphic design per raccontare la vita e la nostra modernità. L’esistenza è fatta di opposti, siamo chiamati a farli convivere» (Cover di Bet Magazine luglio-agosto 2020)

Le sue immagini sono il “catalogo illustrato” della nostra contemporaneità. Immediate, fulminee, capaci di colpire al cuore un personaggio, una situazione: una sensibilità simbolica unica. Nato in Israele, 47 anni, Noma Bar è tra i graphic-designer più celebrati al mondo, un talento sbocciato dall’humus di un Paese in cui convivono parti contrapposte in cerca di un punto d’incontro: la dimensione degli opposti e del “positivo/negativo”, la lettura sia da destra, sia da sinistra, sono la chiave della sua “estetica”. Ha firmato campagne per la Coca Cola, sono sue le copertine dei libri di Murakami Haruki e Margaret Atwood, solo per fare due nomi, e quelle di grandi magazine internazionali, oltre a manifesti per iniziative sociali e di charity. Un’intervista.

La faccia di Saddam Hussein in cui campeggia il simbolo della radioattività; Donald Trump con il ciuffo biondo con la forma dell’uccellino di Twitter (social adorato dal presidente Usa). E ancora: il volto di Ahmadinejad con il naso a forma di missile. Ma anche sagome di cani da cui emerge la forma di un gatto, profili di agnelli da cui spunta un lupo affamato… Chi non ricorda di aver visto almeno una di queste illustrazioni, tanto divertenti e curiose quanto eloquenti, sulle copertine di magazine, di libri (primi fra tutti quelli di Haruki Murakami), o in campagne pubblicitarie? Ad accomunarle, il tratto inconfondibile del geniale illustratore e designer israeliano Noma Bar, al secolo Avinoam Bar, da vent’anni sempre più richiesto da editori e agenzie pubblicitarie. Ha firmato campagne per la Coca-Cola – raffigurando anche le città italiane sulle bottiglie -, ha ritratto politici e dittatori (oltre ai già citati, anche Condoleeza Rice, Angela Merkel, Vladimir Putin, Adolf Hitler) – cantanti e attori (Michael Jackson, Bob Marley, Audrey Hepburn, Charlie Chaplin), ma anche protagonisti delle fiabe (Cappuccetto Rosso che spunta dalla bocca del lupo) e tanti animali (conigli in cui si nascondono tartarughe, elefanti con topolini…). Nel periodo della pandemia, con grande gesto di generosità, ha donato alla Comunità ebraica di Milano una sua immagine per illustrare la raccolta fondi post Coronavirus, e per questo gli siamo profondamente grati. Non potevamo quindi lasciarci sfuggire la possibilità di intervistarlo e di conoscere direttamente dalla sua viva voce (letteralmente) come nasce il suo lavoro e quanto di Israele e della sua identità ebraica vi è contenuto. Qui il resoconto di una piacevole chiacchierata su Zoom.

Innanzitutto, grazie per averci donato l’immagine per la nostra raccolta fondi…

Ci mancherebbe. Appena me lo avete chiesto ho subito accettato, è la mia donazione per la vostra comunità ebraica. Il graphic design ha anche questa funzione: sostenere le persone.

Come definiresti il ruolo dell’illustratore nella società contemporanea?

Ci sono diverse funzioni. La prima è fare informazione, creare awareness: ad esempio, come nella copertina che ho realizzato per Internazionale, con la forma del coronavirus creata da tanti individui che si tengono per mano. Quando ho realizzato quella cover – il cui articolo era scritto da Yuval Noah Harari – la pandemia era all’inizio e la situazione non era affatto buona. L’immagine rappresenta il virus come una specie di sole distorto: ed è interessante vedere quante nuove icone e parole siano nate in questo periodo. Chi l’ha mai visto il virus? Ho quindi scelto di crearlo con l’unione delle mani di tante persone messe in cerchio, che si uniscono in un messaggio di speranza, un “power to the people” contro questo nemico invisibile, come se stessero vincendo. O anche nella campagna “Superhero” per la compagnia assicurativa Mucinex destinata agli adolescenti: un invito a stare in casa durante la quarantena (cosa difficile per i teenager) e, salvando così delle vite umane impedendo la diffusione del contagio, diventare degli eroi. Un altro aspetto del mio lavoro è intrattenere le persone con immagini che riflettono la situazione come attraverso uno specchio: mostrare come in tutto ci possano essere due aspetti diversi, spesso contrapposti.

Positivo e negativo sono appunto molto presenti in tutti i tuoi lavori: sempre due prospettive diverse, spesso opposte. Da dove ti viene questo approccio?

Io vengo da Israele, un paese in cui da sempre convivono due parti, e in cui dobbiamo sempre confrontarci con “l’altro”. Già quando ero studente ho realizzato alcuni progetti sul conflitto israelo-palestinese, con animazioni dominate dagli opposti: il bianco e il nero che si scontrano e che reinventano l’ordine. Se ci pensi, succede sempre così anche nella vita: quando respiriamo l’aria, ad esempio, si incontrano il dentro e il fuori del nostro corpo. Sono molto attirato dal trovare sempre il punto di incontro fra gli opposti, la vita e la morte, il dentro e il fuori, il bianco e il nero. E sì, sicuramente questo approccio ha le radici nella mia identità ebraico-israeliana. Se poi si pensa che sono nato durante la guerra di Yom Kippur, si capiscono meglio i disegni che facevo già a cinque anni: soldati a terra, ossa che cadono dagli aerei… Probabilmente c’è un trauma che mi porto dietro e che oggi si traduce nelle mie opere, nella compresenza di humour e surrealismo. È lo spirito agro-dolce, che ci fa sorridere e fare humour anche nei momenti difficili.

È vero che una delle tue illustrazioni più note, quella di Saddam Hussein “radioattivo”, è stata realizzata mentre eri in un rifugio mentre il dittatore iracheno bombardava Israele?

Assolutamente sì. Avevo 17 anni, ero nel rifugio, con la maschera sulla faccia e con la penna ho disegnato il simbolo della radioattività. Quando poi sono venuto a Londra, nel 2001, a 24 anni, ho ricreato questa immagine con Saddam Hussein e l’ho mandata al Guardian e Time Out. È diventata una delle mie opere più note.

Il tuo è un linguaggio puramente visivo, senza parole. Da dove nasce?

Avevo studiato tipografia ebraica e quando sono arrivato a Londra con un portfolio di lettere ebraiche da me realizzate ai colloqui mi chiedevano cosa volessi da loro…. Ancora non padroneggiavo così bene l’inglese da poterci lavorare. Così ho iniziato a fare quello che faccio, con una specie di “linguaggio dei segni” grafici che era l’unico con cui potevo comunicare. Esaminavo ogni cosa: le mie mani, gli spazi e tutto ciò che poteva ispirare delle storie senza parole. Un’altra cosa curiosa è che, essendo di madrelingua ebraica, sfoglio i libri anche dalla destra: l’abilità di leggere sia dalla destra che dalla sinistra è un esercizio molto interessante di come si può osservare la realtà da due punti di vista diversi. Questo mio approccio grafico alla lingua è evidente anche nel progetto “Chinese”, un sistema grafico che ho sviluppato e che viene utilizzato per insegnare il mandarino. Pur non parlando la lingua, dal momento che è basata su ideogrammi posso illustrarne il significato.

Qual è oggi la tua relazione con Israele e l’identità ebraica? Che cosa ti manca del tuo Paese?

Vivo a Londra ormai da vent’anni e qui sto molto bene, ma mi piace andare in Israele (mi manca l’hummus!), e mi sento privilegiato ad avere due posti del cuore e poter sentire la mancanza dell’uno quando sono nell’altro e viceversa. Questo crea una tensione che è per me di grande ispirazione. In Israele vive la mia famiglia di origine, mentre a Londra ho costruito il mio nucleo famigliare e sto bene: è una città molto internazionale e ti senti a casa, ovunque tu vada. In Israele è diverso: quando arrivo lì cambio lingua, la mia mascella si rilassa, il mio corpo comincia a muoversi diversamente, nel caldo afoso che mi investe appena scendo dall’aereo. E poi, dopo una settimana in cui sono ancora molto British, mi lascio andare! Mi piace questa tensione delle due parti che formano una stessa unità.

Per concludere, c’è qualcosa che vuoi dire alla Comunità ebraica di Milano e in generale a chi ama il tuo lavoro?

Sì. La vita tornerà come prima, dobbiamo solo essere pazienti, e accettare gli opposti. Oggi è il negativo che domina ma non sarà così per sempre. Tornerà il positivo.