Da sinistra, monsignor Fumagalli, Rav Giuseppe Laras e Shaykh Abd al Wahid Pallavicini

Milano dedicherà una via a Rav Laras? Una proposta di Davide Romano

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di Redazione
Prendendo spunto da un articolo de Il Giornale in cui si discuteva di personaggi ai quali la città di Milano si propone di intitolare strade o piazze, Davide Romano è intervenuto con un commento volto a ricordare la figura di Rav Giuseppe Laras zz’l, e a proporlo per un riconoscimento da parte della Città.
Sul vostro giornale avete giustamente sollevato il tema delle vie da dedicare a personaggi del passato. L’estate è una stagione ottima per i ricordi, talvolta anche sotto forma di rimpianti. In questo senso mi preme menzionare il rabbino Giuseppe Laras, mancato il 15 novembre del 2017 e che Milano non dovrebbe commettere l’errore di dimenticare. Laras fu un importante testimone del periodo storico della Shoah, da cui si salvò miracolosamente quando era un bambino di otto anni, e sotto ai suoi occhi fu deportata la madre che non vide mai più. Nel corso della sua vita non fu mai banale, neppure nel ricordare la tragedia dello sterminio, tanto è vero che negli ultimi anni della sua vita cercò di uscire da certi formalismi delle ricorrenze, per privilegiare «una Memoria che non sia esclusivamente ripiegata su sé stessa, bensì dinamica e progettuale». Gli veniva naturale prendere posizioni scomode, come dovrebbe fare ogni persona intelligente e responsabile. Fu tra i primi in Italia a ricucire il rapporto tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, dopo secoli. Lo fece trovando nel cardinale Martini un protagonista altrettanto, se non più coraggioso. Lui come rabbino capo di Milano, Martini come capo della diocesi meneghina, si misero in gioco nonostante le resistenze che provenivano da parte delle loro rispettive comunità, e lo fecero in nome della comune fede nel Dio di Israele. Oggi parlare di dialogo ebraico-cristiano è normale, ma quando iniziarono a farlo loro negli anni Ottanta significava infrangere un tabù millenario. Come ricordava il cardinale Martini a proposito del dialogo: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore vitalità di un dialogo bensì l’acquisizione della coscienza nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno perla dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura perla sua missione nel mondo d’oggi». Parole, oggi più che mai, attualissime. Da religioso, era capace di parlare anche ai laici. Per anni infatti, insegnò Storia del pensiero ebraico all’Università Statale di Milano. Come la migliore tradizione rabbinica prevede, oltre che intendersi di questioni religiose si era preso anche una laurea in Giurisprudenza e una in Filosofia. E non era un caso che amasse ripetere «per ben credere occorre saper ben ragionare». Per tutto questo, e molto altro, credo che la nostra città abbia necessità di un ricordo perenne di questa persona e del suo pensiero.