Il rabbino: mediatore, pastore o Maestro?

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Quale modello di Comunità.

Mercoledì 11 novembre, presso la Sala del Bené Berith, si è svolta una bella e affollata conferenza di Kesher, seguita da un animato dibattito. Il titolo della serata era Quale modello di Comunità: un rabbino per la Comunità oppure una Comunità per un rabbino?

La serata si è aperta con un’introduzione di Rav Roberto Colombo, responsabile del progetto Kesher, e con un intervento di Riccardo Hofmann, consigliere dell’UCEI con delega agli ebrei “lontani”, già tra gli organizzatori di un bel dibattito in settembre proprio su questo tema. Ma la prima vera chiave della serata è stata fornita proprio dall’intervento del Rabbino Capo, Rav Alfonso Arbib. Dopo avere sciolto il dilemma del titolo, naturalmente in favore dell’alternativa “un rabbino per la comunità”, rav Arbib si è concentrato sul tema di qual è il modello prevalente nella tradizione ebraica.
Seguendo alcune interpretazioni, è possibile individuare due precisi punti di riferimento: Moshè ed Aaron. Moshè è un pastore, fermamente intenzionato a seguire il destino del suo gregge – come quando chiede al Signore di risparmiare il popolo ebraico, nonostante il tradimento rappresentato dal vitello d’oro, oppure di fare perire anche lui insieme con il suo popolo.
Però Moshè si arrabbia spesso con il popolo ebraico (più di quanto faccia Dio stesso…), sgrida il suo popolo, lo ammonisce. Aaron è invece un uomo di pace, un mediatore tra i litiganti, uno che avvicina i lontani alla Torà e si avvicina a essi. Aaron soffre con la sua comunità e quando gli ebrei si allontanano dalla Torà. Tutti e due credono fermamente nella Teshuvà, nel fatto che il popolo ebraico può sempre cambiare, e tornare sul sentiero giusto. E tutti e due sanno che il rabbino ha il dovere di comunicare con la sua Comunità; a volte con allusioni o discorsi indiretti, ma a volte arrabbiandosi (- e a volte urlare è necessario!-).
Ma secondo alcuni commentatori Moshè perde la possibilità di entrare in terra d’Israele non tanto perché vede la sua comunità come un gruppo di ribelli, quanto perché ha perso fiducia nella sua comunità e nella sua possibilità di fare Teshuvà. Naturalmente un rabbino dovrà cercare di coniugare Moshè ed Aaron, e ognuno lo farà a suo modo.

Attenti alle sfumature
La seconda chiave della serata è stata offerta dal dibattito.
Affollatissimo e serrato, a cui hanno partecipato molte tra le più di 100 persone presenti. Uno dei temi ricorrenti è stato certamente quello di “chi è ebreo” e delle conversioni: dai matrimoni misti, ai figli di questi matrimoni, alle differenze esistenti tra i criteri halachici e la legge israeliana del ritorno; ma a questo si sono mischiati altri temi, dalle varie sfumature dell’ebraismo “laico”, o comunque non religioso, ai concreti rischi di scomparsa delle piccole comunità, alle sfide portate alla comunità italiana dalle nuove comunità cosiddette Reform.
Un intervento dal pubblico ha preso le mosse dal personale modello di rabbino che è stato costituito a Milano in questi anni dallo stesso rav Arbib.
Un rabbino evidentemente aperto al dialogo e all’ascolto della sua Comunità, anche di chi si pone inizialmente su un terreno di scontro o comunque di grande diversità. Un rabbino che crede nel non dover perdere mai la propria serenità, aiutato in questo da un tratto di personale bonomia.

Tuttavia una delle rare occasioni in cui rav Arbib si è recentemente irritato in pubblico è stato a proposito di due temi molto attuali e controversi per la nostra Comunità: le conversioni e i Reform.
La domanda per rav Arbib è stata allora: perché? Perché questi temi hanno scalfito in qualche modo questo tratto di serenità dialogante così caratteristico del suo rabbinato? Un’altra domanda è partita da una famosa, vecchia intervista a rav Elio Toaff, in cui l’intervistatore aveva chiesto quali e quante fossero, a parere di rav Toaff, le conversioni che andavano fatte. La risposta di rav Toaff era stata sorprendente: non “quelle giuste”, come sarebbe forse stato lecito aspettarsi; ma semplicemente “il minor numero possibile”. E quale sarebbe ora la risposta di rav Arbib? Tra tutte le domande del pubblico, rav Arbib ha scelto queste due come perno del suo lucidissimo intervento di risposta, che da solo valeva la serata.

Quello delle conversioni è un argomento delicato, che lo preoccupa molto, ha dichiarato, al punto da non riuscire a dormirci la notte.
Prima di tutto, deve essere chiaro che il tema delle conversioni non va considerato come un tema del dibattito politico comunitario; infatti la conversione è sostanzialmente una questione personale tra chi vuole convertirsi e il rabbino. Come tutti sanno vi sono regole certe per la conversione, regole di Halachà, ma non vi può mai essere certezza né sul percorso né sull’esito. E se è vero che le conversioni sono un problema che riguarda la Comunità, lo sono in quanto unione di tanti problemi individuali da risolvere individualmente, ma non come problema collettivo da risolvere magari politicamente. Se qualcuno crede che ci dovrebbe essere una risposta collettiva, politica, intesa magari nel senso di una sorta di “sanatoria” collettiva, semplicemente rav Arbib non è disponibile a prendere la cosa in considerazione.
Senza contare che secondo lui, le conversioni non aiuterebbero a risolvere né il problema dell’assimilazione né il problema del calo demografico delle nostre comunità.

Rav Arbib ha chiarito inoltre in modo appassionato che personalmente egli stesso crede molto nelle conversioni, quelle giuste e convinte, perché esse rappresentano una grande occasione di arricchimento della Comunità; al punto che la sua risposta su quali conversioni si debbano fare sarebbe stata sensibilmente diversa da quella di Toaff.
Ma allo stesso tempo, semplicemente per rav Arbib è impensabile agire in modo contrario alla Halachà o in modo contrario alle sue convinzioni. Egli ha tenuto infine a ricordare a tutti l’importante mitzvà della Ahavat Hagher, l’amore per il convertito, che nella Bibbia è ripetuta per ben 36 volte, e che tutta la nostra Comunità dovrebbe imparare a mettere veramente in pratica.

Quanto alla questione dei Reform, rav Arbib ha chiarito che a suo giudizio essi sono una risposta sbagliata e pericolosa ai problemi dell’ebraismo moderno. L’idea più pericolosa della riforma, a suo parere, è quella che sia necessario adattare l’ebraismo alla realtà contemporanea (non soltanto “tenere conto” della realtà, il che è plausibile, ma addirittura adattarvisi…). In questo senso, ha concluso, ricordiamoci che anche il Cristianesimo è una sorta di ebraismo riformato.

Rav Arbib ha concluso poi la serata nel solco ideale di Aaron, ribadendo il suo obiettivo: avvicinare la Comunità tutta alla tradizione ebraica e alle mitzvot: portando gli ebrei al Tempio, fornendo ai ragazzi ebrei una scuola ebraica, e ricordando che i matrimoni misti devono continuare a essere percepiti da tutti come un importante problema comunitario, senza cedere alla tentazione dell’assuefazione.