La competenza dell’equilibrista. Essere ebrei sul posto di lavoro dopo il 7 ottobre

JOB news

di Dalia Fano, responsabile JOB

Dopo il 7 ottobre, essere ebrei sul posto di lavoro richiede una nuova competenza, e mi viene alla mente quella dell’equilibrista: la capacità di stare in bilico, con passo fermo ma leggero, su un filo teso tra il mostrarsi e il nascondersi, tra il bisogno di appartenere e il desiderio di proteggersi.

Vogliamo in queste righe prenderci uno spazio per riflettere su quello che accade nei corridoi, nelle riunioni, durante i pasti nelle mense aziendali e che sembra non accadere.

Come l’elefante nella stanza, che si finge di non vedere per evitare di affrontare qualcosa di troppo ingombrante.

Negli ultimi due anni, molte persone di origine ebraica hanno imparato a misurare ogni parola, ogni silenzio, ogni gesto, per restare fedeli a sé stesse in contesti che appaiono inclusivi ma talvolta si rivelano fragili davanti alla differenza.

Ci si muove, in solitudine, su un filo sottile tra l’esporsi e il celarsi, tra il bisogno di affermare la propria identità e il timore di essere fraintesi o giudicati. E, a volte, con sorpresa, ci si ritrova a fare i conti con radici identitarie che sembravano sepolte e lontane nel tempo.

Il clima globale degli ultimi mesi, segnato da polarizzazione, narrative distorte, parzialità dell’informazione, riemersione di vecchi stereotipi e acuirsi delle tensioni sociali, ha reso questa condizione ancora più visibile.

Come ha scritto la professoressa Linda Maizels, analizzando le difficoltà degli studenti ebrei nelle università americane:

l’ostilità contro Israele si è integrata con la percezione degli ebrei non più come una minoranza, ma come un gruppo di bianchi privilegiati”.

Un cambiamento di sguardo che, anche nei contesti professionali, può generare ansie, paura e silenzi.

Identità situata e adattamento quotidiano

Si calibra il linguaggio, si sceglie con cautela quando parlare e quando tacere, esercitando quella forma di intelligenza che la sociologia ha definito intelligenza situazionale.

La sociologia parla anche di identità situata per descrivere come l’identità non sia qualcosa di fisso, ma si costruisca continuamente in relazione agli altri e al contesto.

Il posto di lavoro diventa così un piccolo laboratorio sociale dove pregiudizi, opinioni e tensioni globali si riflettono nelle interazioni di ogni giorno, contribuendo a ridefinire il senso di sé e di appartenenza.

Ci si allena a stare sul filo, come farebbe un equilibrista.

Esprimere la propria identità o opinioni può essere interpretato come “divisivo” o “politico”, soprattutto in ambienti che privilegiano una neutralità apparente. Molti finiscono così per moderare il linguaggio, limitare l’espressione di sé o evitare certi argomenti, anche a costo di comprimere parti significative della propria storia.

È un continuo bilanciamento tra autenticità e appartenenza, tra il bisogno di essere se stessi e quello di essere accettati: una forma di equilibrismo identitario che genera stress, isolamento e, spesso, una doppia vita silenziosa.

Minority stress e pregiudizi invisibili

Questo fenomeno è noto anche come minority stress: la pressione costante di dover gestire discriminazioni o pregiudizi invisibili, con conseguenze psicologiche e relazionali tangibili.

C’è chi sceglie di parlare apertamente, chi preferisce il silenzio, chi cerca alleati o spazi di confronto. Ma qualunque sia la scelta, comporta un prezzo emotivo: la fatica di vivere in bilico tra la propria identità e il bisogno di protezione.

La vulnerabilità dell’identità invisibile

Questa tensione colpisce, forse con maggiore forza, chi è più distante dall’ebraismo istituzionale, e religioso, chi si sente parte della società nel suo insieme e non ha mai pensato di dover “spiegare” o posizionare la propria identità.

Per molti, la riemersione di stereotipi e pregiudizi ha riaperto un senso di vulnerabilità che si credeva superato.

È la condizione delle minoranze invisibili: non riconosciute come tali dalle politiche di inclusione aziendali, ma esposte a discriminazioni sottili, a volte inconsapevoli.

Uno studio della Revson Foundation (2024) lo conferma: solo il 56% degli ebrei intervistati si sente supportato nell’esprimere la propria identità sul posto di lavoro, e appena il 30% si sente libero di parlare di Israele o di antisemitismo senza timore di giudizio.

Inclusione formale, invisibilità reale

Molte organizzazioni investono in programmi di diversity & inclusion attraverso corsi e workshop, ma raramente affrontano i temi della cultura, della religione o dell’appartenenza in modo aperto.

Il tema dell’antisemitismo contemporaneo viene spesso minimizzato, ridotto ad una questione politica, negando e rimuovendo il pregiudizio e le sue implicazioni reali.

Anche in contesti inclusivi sulla carta, le persone restano sole nel gestire la propria identità, chiedendosi ogni giorno quanto di sé possano davvero portare al lavoro.

Servirebbe un’inclusione più profonda, che non si limiti a riconoscere le diversità visibili, come genere, etnia o disabilità, ma che sappia accogliere anche quelle più sottili e spesso invisibili: le differenze culturali, religiose, linguistiche o legate ai diversi modi di intendere l’appartenenza.

Nel mondo aziendale, questo significherebbe aggiornare pratiche già presenti — come le formazioni interne sulla diversità, i programmi di leadership inclusiva, ecc.. rendendole più attente alle dimensioni identitarie meno esplicite.

Serve spostare l’attenzione dall’inclusione formale a quella sostanziale.

È un investimento nel capitale umano e culturale dell’organizzazione, un modo per trasformare la diversità in una forma di competenza collettiva e non in una variabile da gestire.

 

JOB come spazio di elaborazione ed ascolto

In JOB crediamo che l’inclusione non si esaurisca in una policy, ma si costruisca ogni giorno, attraverso ascolto e dialogo autentico.

Per questo, offriamo percorsi di coaching e di counseling per chi vive tensioni legate alla propria identità — culturale, religiosa, personale — e desidera ritrovare equilibrio e presenza nel lavoro.

Creare spazi di confronto e supporto non serve solo a tutelare le persone di origine ebraica: significa contribuire a costruire organizzazioni più consapevoli, dove la diversità diventa una risorsa condivisa e non una fonte di timore.

L’equilibrio come competenza collettiva

La competenza dell’equilibrista non riguarda quindi solo gli ebrei, ma chiunque oggi si trovi a camminare su un filo tra sé e il mondo.

In tempi di polarizzazione e fragilità sociale, imparare a gestire le differenze con rispetto e consapevolezza è una competenza collettiva, necessaria per costruire luoghi di lavoro più accoglienti e sensibili.

In fondo, l’obiettivo più alto dell’inclusione è duplice: permettere a ciascuno di essere se stesso, e permettere a tutti di confrontarsi con l’altro da sé in modo civile, aperto e orientato all’apprendimento reciproco.

In azienda, questo significa non solo tollerare la diversità, ma integrarla come componente essenziale del capitale culturale dell’organizzazione.

L’equilibrio diventa così, non più solo una competenza personale ma competenza collettiva, che le organizzazioni possono coltivare attraverso formazione, ascolto e capacità di leadership: sono azioni concrete che trasformano il filo dell’equilibrista in una rete che sostiene tutti.