Zikaron BaSalon: la Memoria ieri, oggi e domani

di Giovanni Panzeri

“Zikaron BaSalon nasce con l’idea di trasmettere messaggi importanti, il ricordo della Shoah, in un ambiente familiare e informale” spiega David Fiorentini, ex presidente UGEI e collaboratore di Mosaico, presentando l’evento in occasione dello Yom Hashoa, la Giornata del Ricordo, lo scorso lunedì 6 maggio nella scuola della Comunità Ebraica di Milano.

 

Durante l’evento sono stati intervistati i Testimoni Giordano d’Urbino e Bruna Cases, autrice del libro Sulle ali della speranza, che hanno narrato, davanti a un pubblico giovane e internazionale, la terribile vita in un paese in guerra, le persecuzioni subite per mano nazifascista, la fuga in Svizzera e l’incerta situazione dei profughi nel paese elvetico.

 

All’intervista è seguito un dibattito sulla necessità di trovare nuovi modi di narrare la Shoah in seguito alla progressiva scomparsa dei Testimoni, rivolgendosi in particolare alle nuove generazioni.

 

Il dibattito ha coinvolto i rappresentanti di diverse realtà ebraiche e israeliane, tra cui Yair Danzig, rappresentante di Bnei Akiva, Nimrod Ofir, per Hashomer Hatzair e Daniela Dana Tedeschi, presidente dell’associazione Figli della Shoah.

 

La serata è stata organizzata su iniziativa dell’Agenzia Ebraica, e si è aperta con i discorsi di Sylvia Sabbadini, presidente dell’Adei Wizo, e del vicepresidente della Comunità Ebraica milanese, Ilan Boni.

 

“Ringrazio Bruna Cases, che è stata per anni tesoriera dell’Adei Wizo – ha spiegato Sylvia Sabbadini – La Wizo, nata prima della fondazione d’Israele, è tra le prime organizzazioni per i diritti delle donne nella regione.  Si è sempre occupata di formare le lavoratrici e di permettere alle madri di lavorare, fondando e gestendo asili. Inoltre ha sempre prestato soccorso e rifugio, prima alle vittime della Shoah, oggi agli sfollati a causa del conflitto con Hezbollah e Hamas”.

 

“È bellissimo vedere tante associazioni lavorare insieme – ha dichiarato Ilan Boni – è una cosa stupenda vedere finalmente tutti lavorare nella stessa direzione. Vuol dire che abbiamo capito che il Nemico (ndr l’antisemitismo) dobbiamo affrontarlo insieme, e lo possiamo sconfiggere sottolineando ciò che ci unisce e lasciando perdere le poche cose che ci dividono”.

 

Guerra, persecuzione e esilio

 

La parola è poi passata a Bruna Cases che ha descritto la sua infanzia dopo la promulgazione delle leggi razziali, e la catena di eventi che spinsero una bambina di nove anni a scrivere un diario,  poi diventato il libro Sulle ali della speranza.

“Nel 1938 avevo 4 anni, quindi non mi sentivo direttamente coinvolta, pur percependo un ambiente famigliare teso – ha raccontato Bruna Cases – mio padre era avvocato e fu costretto a smettere di lavorare. Quando cominciai ad andare a scuola, iniziai a capire. Era un periodo difficile, c’era la guerra, c’erano i bombardamenti, e uscire era molto pericoloso perché quando suonava la sirena dovevi cercare rifugio. Nel ‘42 ci siamo rifugiati a Parma, dove non potevo andare a scuola visto che c’era solo un’altra bambina ebrea”.

 

“Lo shock comunque arrivò con l’8 settembre del 1943 – ha continuato Cases – Quello fu il momento in cui diventai adulta. Vidi i tedeschi arrivare e i soldati italiani cercare di fuggire gettando le divise, sentii sparare in una caserma vicino a noi e una famiglia ebraica che viveva a Parma sparì nel nulla… erano stati presi. Tornammo a Milano e ci nascondemmo in casa dei nonni, perché pensavamo che non sarebbero venuti a prendere persone anziane”.

 

“In seguito cercammo di fuggire in Svizzera – ha raccontato ancora la Testimone – Attraverso dei nostri amici riuscimmo a metterci in contatto con i contrabbandieri. Eravamo in 11 in tutto tra cui mia madre e le mie sorelle, ci chiusero in un camioncino e ci portarono in una cascina. Passammo lì tre notti prima che ci venissero a prendere, e li iniziai a scrivere il mio diario. Attraversammo la frontiera di notte, dopo che i contrabbandieri avevano tagliato la rete che segnava il confine. I soldati ci passarono vicino e mi illuminarono il piede. Ancora non so se non si accorsero di noi o se ci lasciarono andare. Raggiungemmo la dogana e alla fine ci accettarono, ma fu un momento di grande tensione. Anche se avevo nove anni sapevo che in quel momento si stava decidendo della nostra vita”.

 

Giordano d’Urbino ha cominciato il suo intervento ricordando come oggi sia quanto meno ironico salutarsi augurando ‘Shalom’, la pace, visto che “il mondo è lontano dalla pace. Ci sono due guerre in corso, una terribile in Ucraina e una terribilissima a Gaza. Terribilissima in quanto combattuta tra avversari che non si riconoscono e non si rispettano. Una guerra cominciata con l’atto terribile del 7 Ottobre, e che non si sa come andrà a finire”.

 

Il Testimone si ricollega dunque al conflitto di allora. “A Milano c’era la guerra – ha raccontato – una guerra terribile, c’erano i bombardamenti… e  le fortezze volanti, con il loro rombo terrificante che per anni è rimasto impresso nella mia memoria. La città era semidistrutta, almeno al 50%. Ancora oggi quando passo da Piazza Cavour ricordo l’odore dei cadaveri, sepolti sotto le macerie a centinaia, o addirittura a migliaia. Un periodo di freddo, di miseria e di fame per tutti, non solo per noi… e di paura”.

 

“Anche noi eravamo sfollati – ha continuato d’Urbino. – Ci siamo nascosti in un paesino fuori Milano, per sfuggire ai bombardamenti. Il 30 novembre del 1943 scoprimmo da Radio Londra che il giorno dopo avrebbero impartito l’ordine di arresto e deportazione di tutti gli ebrei. Ci salvammo perché i due carabinieri che avrebbero dovuto portarci in caserma, a cui evidentemente non andava a genio l’idea di arrestare donne e bambini, ci dissero che ‘ci avrebbero arrestato domani’. In modo molto italiano ci fecero capire che dovevamo tagliare la corda, facendo finta di svolgere il loro dovere. Quella stessa notte, aiutati dai contadini, scappammo nascosti su un carro agricolo, poi arrivammo a piedi al confine svizzero. Passammo giorni sulle montagne, a Dicembre, nel gelo”.

 

“La notte in cui scappammo, avevo 12 anni – ha ricordato ancora d’Urbino – e io morivo di vergogna. Morivo di vergogna a scappare come un ladro, senza aver fatto niente di male. Lì ho concepito per la prima volta l’idea che gli ebrei devono imparare a difendersi”.

 

Un sentimento rinforzato dal bullismo e dalla situazione di semi-detenzione sperimentata nei campi di ‘concentramento’ dei rifugiati in Svizzera. Gli esuli, tra cui si contavano non solo ebrei ma anche rifugiati politici e soldati in fuga, erano sospettati di spionaggio da parte delle autorità elvetiche, che vivevano nel timore di suscitare un attacco nazista.

 

“La mia educazione religiosa all’ebraismo iniziò in Svizzera. Ciò che mi colpì di più nella Torah – ha concluso d’Urbino-  fu il concetto di dover aiutare lo straniero ‘poiché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto’. Una mentalità che ti insegna a ragionare contro corrente: avete ricevuto il male, dovete fare il bene. Anche oggi, quando usciamo di casa, vediamo dei poveracci che chiedono l’elemosina, che cercano di essere accolti in Italia. Magari dopo essere fuggiti da paesi in guerra, dalla miseria, attraverso viaggi in cui molti di loro perdono la vita. Quando vedo questa gente, io vedo me stesso, e credo che tutti noi dobbiamo identificarci con loro perché una volta eravamo loro. Siamo stati perseguitati e, per questa ragione, dobbiamo aiutare i perseguitati.”

 

Tramandare la Memoria, coinvolgere i giovani

 

All’intervista è seguito un dibattito, aperto al pubblico e informale, in pieno stile Zikaron BaSalon.

Gli interventi si sono concentrati sulla necessità di tramandare la Memoria della Shoah, e di trovare nuovi modi di coinvolgere i giovani.

 

Yair Danzig, del Bnei Akiva, ha descritto l’interesse per la Shoah e la storia del popolo ebraico riscontrato durante il suo lavoro tra i giovani non ebrei, ma anche le resistenze dei genitori ai suoi interventi nelle scuole. Ha poi ammonito il pubblico riguardo al fatto che in Italia l’antico antisemitismo è ancora ben presente, anche se per ora cova sotto le ceneri, descrivendo il selvaggio pestaggio di cui fu vittima il padre ultrasettantenne durante il periodo del Covid. Un’aggressione tuttora impunita.

“Si deve pensare a un modo più creativo di coinvolgere i giovani – ha detto – perché sono loro che in futuro avranno il compito di raccontare”.

 

L’intervento di Nimrod Ofir si è invece concentrato sulle attività dell’ Hashomer Hatzair, che organizza annualmente viaggi della Memoria in Polonia con gruppi di giovani e adulti. Questi viaggi, afferma Ofir, non servono solo a far scoprire i luoghi della sofferenza e della persecuzione. Infatti iniziano a Cracovia e finiscono a Varsavia, mostrando ai viaggiatori la ricchezza della vita e della cultura ebraica precedente alla Shoah, e i luoghi della resistenza ebraica. “Come comunità ebraica dobbiamo imparare a difenderci e vivere con quella resilienza che ci permette di andare avanti – ha detto Ofir – questo è il messaggio che dobbiamo portare avanti per coinvolgere le nuove generazioni”.

 

Per concludere il dibattito David Fiorentini ha passato la parola alla presidente dell’associazione Figli della Shoah, Daniela Dana Tedeschi, che in collaborazione con UGEI, ha dato vita ad “Incontrare la Memoria”, un progetto volto a formare dei ragazzi per renderli in grado di organizzare a loro volta incontri sul tema nelle scuole.

 

Dana Tedeschi ha coinvolto il pubblico, composto prevalentemente da giovani liceali e universitari, spingendoli a riflettere su quale dev’essere il nuovo metodo per raccontare la Shoah, per coinvolgere i loro amici e coetanei.

 

“Voi siete la nostra speranza e il nostro futuro – gli ha ricordato Dana Tedeschi – e vi sembrerà strano, ma il punto non è sconfiggere l’antisemitismo. L’antisemitismo durerà fin quando dureranno gli ebrei. Il punto è la nostra resilienza. La gente si focalizza sulla sofferenza nella Shoah, ma la realtà è che è anche una storia piena di vita, orgoglio e resistenza. Una storia di persone che, pure nei campi di sterminio, si sono battute per mantenere la loro umanità ma anche la loro identità ebraica. Queste persone hanno poi costruito la nostra Comunità. Siete voi a dover ideare un modo per coinvolgere la vostra generazione, ma dovete farlo ricordando la forza di queste persone. Non abbiate timore di mostrare alla gente chi siete, alcuni vi odieranno ma incontrerete anche molte brave persone.”

 

L’evento si è concluso con la recitazione di una preghiera per la pace e il canto dell’Hatikvah, l’inno nazionale israeliano.