Sumaya Abdel Qader e quell’ambiguità nei confronti di Israele

Taccuino

di Paolo Salom

Il lontano Occidente è ormai nel giardino di casa. Alle ultime elezioni amministrative, è stata eletta in consiglio comunale la candidata del Pd Sumaya Abdel Qader, italiana di origine giordano-palestinese. Sumaya è una musulmana praticante, indossa un velo che lascia scoperto solo l’ovale del volto ma, afferma in un’intervista al Corriere della Sera, “andrò in Consiglio con lo chador ma non rappresento i musulmani”. Davvero? La consigliera del Pd è risultata molto discussa nelle settimane precedenti il voto per le sue frasi sullo Stato ebraico (“Israele ha diritto ad esistere? Beh, è lì, c’è, dobbiamo farcene una ragione”, ha detto in sostanza); ma soprattutto per le dichiarazioni ben più estreme del marito e di altri familiari su Facebook, per la sua vicinanza ai Fratelli Musulmani (“li frequento solo perché studio il fenomeno da sociologa”, è la sua tesi); e per la stretta di mano di qualche anno fa tra il padre e l’allora presidente islamista dell’Egitto Morsi.

Con tutto ciò, dunque, Sumaya dice che non rappresenta i musulmani bensì l’insieme “delle minoranze religiose della città”. Quali, di grazia? Forse gli ebrei? Risulta a qualcuno che abbia visitato una sinagoga o la nostra comunità prima delle elezioni? Evidentemente si sente di curare gli interessi degli hindu di Milano o magari dei testimoni di Geova o dei Protestanti. Peccato che, nell’intervista citata (Corriere della Sera Milano, 21 giugno o 2016, pagina 2), la neo consigliera si sia spinta soltanto ad assicurare il suo impegno su un “tema importante”. Quale? La nuova moschea. Che, nella sua visione, non dovrà essere “una mega moschea. La mia idea è che andrebbero riconosciuti spazi in città in base alle esigenze dei quartieri. E che come le parrocchie siano allo stesso tempo anche presidi culturali e sociali”.

Capito? Non una sola moschea (grande), ma tante piccole moschee di zona. Immaginiamo la preoccupazione delle autorità di polizia se questo scenario dovesse avverarsi. Chiariamo: noi non siamo certo contrari all’apertura di luoghi di culto per i musulmani che hanno diritto di pregare in condizioni civili. Ma, restando ai fatti, molte moschee, non solo in Italia, si sono rivelate centri di propaganda e reclutamento per combattenti estremisti e/o terroristi. Dunque, avere una moschea, per quanto grande, o più luoghi di preghiera nella stessa città non è chiaramente la stessa cosa ai fini della sicurezza.

Al di là di queste considerazioni, dobbiamo sottolineare che l’ambiguità di Sumaya Abdel Qader quando parla di Israele non fa ben sperare. Che significa affermare che “Israele c’è, dobbiamo accettarlo”? Non dovrebbe essere una cosa scontata per un cittadino italiano, figuriamoci per un rappresentante di un partito di importanza nazionale?

Il fatto è che le parole mascherano, a fatica, una realtà differente. Le istituzioni dovrebbero essere un luogo aperto, laico, di tutti. Ma una persona che vi entra da consigliera con il velo certo ne cambia i connotati, che lo si voglia ammettere oppure no. Inoltre fa specie che questa giovane rappresentante politica sia stata presentata da un partito, il Pd appunto, che dovrebbe per statuto essere sempre dalla parte dei diritti, dell’uguaglianza, delle donne.

Ora, nel lontano Occidente, chi indossa il velo racconta un’altra storia: è non è certo quella dei diritti. Alla faccia della coerenza, del progresso, delle magnifiche sorti e progressive. Qualcuno ha innestato la marcia indietro. Ma non se ne è neppure accorto.